Isaia 25, 6-10a
In quei giorni. Isaia disse: « 6Preparerà il Signore degli eserciti per tutti i popoli, su questo monte, un banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati. 7Egli strapperà su questo monte il velo che copriva la faccia di tutti i popoli e la coltre distesa su tutte le nazioni. 8Eliminerà la morte per sempre. Il Signore Dio asciugherà le lacrime su ogni volto, l’ignominia del suo popolo farà scomparire da tutta la terra, poiché il Signore ha parlato. 9E si dirà in quel giorno: «Ecco il nostro Dio; in lui abbiamo sperato perché ci salvasse. Questi è il Signore in cui abbiamo sperato; rallegriamoci, esultiamo per la sua salvezza, 10poiché la mano del Signore si poserà su questo monte».
Agli
occhi ed alla immaginazione del mondo ebraico, povero per il proprio lavoro di
agricoltore e di pastore, i racconti e gli annunci di grandi banchetti erano
l’apertura di un sogno splendido, ancor più prezioso se fatto da un re dopo una
vittoria. In quel caso non si badava a spese e, se tutti erano invitati, il
progetto diventava enorme e splendido.
Qui
i profeta annuncia che addirittura sarà il Signore che preparerà un banchetto a
Gerusalemme e gli invitati saranno tutti i popoli. Un popolo, abituato a
mangiare, si e no, una volta al giorno e cibi usuali della cucina povera, sente
e gioisce poiché Gerusalemme diventa il
centro della pace. Sono finite le guerre poiché tutti i popoli, nessuno escluso,
sono invitati. E garante è Dio stesso.
C’è
pure un menù raffinato e i rabbini si sbizzarrivano nel raccontare che, nella
Bibbia, si parla di un mostro marino chiamato Leviatan, ucciso da Dio e dato in
pasto al popolo che abitava nel deserto (Sal 74,14); si concludeva che il
piatto forte fosse la carne di questo pesce
favoloso. E’ per questo che, in Israele, ancor oggi, nella cena del
venerdì sera, che dà inizio al sabato, si è soliti mangiare pesce per ricordare
la cena preparata dal Signore della liberazione. Ma, in questo banchetto,
aperto a tutti i popoli, cadrà il velo che è sulla faccia di tutti i popoli e vedranno finalmente il Signore e
saranno asciugate le lacrime. Egli eliminerà la morte per sempre.
Riprendendo
e ampliando concezioni universaliste già diffuse presso i profeti anteriori,
l’autore descrive l’afflusso dei popoli a Gerusalemme come ad un immenso
banchetto. A partire da questo testo, l’idea di un banchetto messianico è
diventata corrente nel giudaismo e si ritrova anche nel Vangelo (Mt 22,2-10: il
pranzo di nozze per il matrimonio del figlio del re, il rifiuto dei primi
invitati provoca la ricerca e l’accoglienza di tutti i poveri, ma tutti debbono
avere l’abito da cerimonia, tra l’altro regalato, altrimenti si è cacciati
fuori. Anche Luca (14,14.16-24) ricorda una parabola simile. Al banchetto i
primi invitati trovano scuse per non accettare ed essi sono sostituiti dai
poveri).
Si deve ricordare che uno
stesso banchetto rituale fu consumato dopo il “patto dell’alleanza” con Mosé al
Sinai (Es 24,9-11) ed anche Gesù celebrò un banchetto, prima di morire. Esso è,
nello stesso tempo, il rinnovo della Nuova Alleanza conclusa tra Dio e tutti
gli uomini della terra e gesto continuo di comunione in un mondo che si
costituirà nella pace. «Prendete, mangiate: questo è il mio corpo». Poi prese
il calice, rese grazie e lo diede loro, dicendo: «Bevetene tutti, perché questo
è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti (e molti sta per le
moltitudini) per il perdono dei peccati”. (26,26-28).
Isaia, per tre volte, nomina
il monte del Signore per indicare che sarà proprio Gerusalemme il punto di
confluenza della vittoria di Dio sul male. Ma ancor oggi Gerusalemme non è il
luogo della pace. Dobbiamo tutti pregare perché possa vivere in pace il suo
cammino e il suo cambiamento. La pace di Gerusalemme segnerà la concordia dei
popoli.
Epistola
Paolo ai Colossesi 2, 1-10aFratelli,1voglio infatti che sappiate quale dura lotta devo sostenere per voi, per quelli di Laodicèa e per tutti quelli che non mi hanno mai visto di persona, 2perché i loro cuori vengano consolati. E così, intimamente uniti nell’amore, essi siano arricchiti di una piena intelligenza per conoscere il mistero di Dio, che è Cristo: 3in lui sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della conoscenza. 4Dico questo perché nessuno vi inganni con argomenti seducenti: 5infatti, anche se sono lontano con il corpo, sono però tra voi con lo spirito e gioisco vedendo la vostra condotta ordinata e la saldezza della vostra fede in Cristo.6Come dunque avete accolto Cristo Gesù, il Signore, in lui camminate, 7radicati e costruiti su di lui, saldi nella fede come vi è stato insegnato, sovrabbondando nel rendimento di grazie. 8Fate attenzione che nessuno faccia di voi sua preda con la filosofia e con vuoti raggiri ispirati alla tradizione umana, secondo gli elementi del mondo e non secondo Cristo.9È in lui che abita corporalmente tutta la pienezza della divinità, 10e voi partecipate della pienezza di lui,
L’apostolo
Paolo si sente profondamente responsabile a riguardo delle comunità che stanno
sorgendo sia attraverso la sua presenza personale in varie cittadine e sia
attraverso il suo lavoro con i discepoli che poi continuano o addirittura
iniziano una evangelizzazione in diverse parti del Medio Oriente. Paolo infatti
non è stato nella città di Colossi o di Laodicea, né ha fondato queste
comunità, e tuttavia è preoccupato per le notizie che gli fa giungere Epafra,
un collaboratore che sembra essere stato il fondatore di queste piccole chiese.
Poco
prima Paolo ha affermato, in questa lettera: “Io sono lieto nelle sofferenze
che sopporto per voi e do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca
nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa” (1,24). E di queste
sofferenze ritroviamo, qui stesso, i richiami
(2,1), quando parla di “dura
lotta che debbo sostenere per voi”. Le lettere di Paolo sono cariche di
preoccupazioni, timori, sofferenze per le difficoltà che si sviluppano nelle
comunità che conosce. Ma se Paolo sa che la sua sofferenza non aggiunge
nulla alla sofferenza di Cristo, conosce
tuttavia che è necessaria per condurre a termine il suo itinerario apostolico,
la sua maturazione che chiama
«compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne». Egli
verifica in sé quella sofferenza che
riproduce quella di Cristo, nel suo modo di vivere e di soffrire, necessario
per essere disponibile per l’annuncio
del Vangelo e per la Chiesa. Paolo infatti vuole sottolineare l’autorità che
Dio gli ha dato, il contenuto del messaggio (il mistero di Cristo), il suo
impegno personale (lotta e sofferenza) a favore delle comunità ed anche dei destinatari che non lo hanno conosciuto (2,1). Infatti
“di essa (la Chiesa) sono diventato ministro, secondo la missione affidatami da
Dio verso di voi, di portare a compimento la parola di Dio, il mistero nascosto
da secoli e da generazioni, ma ora manifestato ai suoi santi” (1,25-26). E
quindi Paolo, con chiarezza e risoluzione, sente e decide di portare, in sé, a
compimento, le sofferenze redentrici per la Chiesa attraverso il suo itinerario
apostolico. “Per questo mi affatico e lotto, con la forza che viene da lui e
che agisce in me con potenza” (1,29).
Il
mistero di Cristo è totalmente inaccessibile agli esseri umani. Esso deve
essere manifestato da una persona autorizzata da Dio che, in questo caso, è
Paolo stesso. Cristo è il contenuto di questo mistero. Paolo sente la
responsabilità e si preoccupa di orientare
tutti a Cristo. Egli assicura che segue anche queste nuove comunità con
amore e soddisfazione, nello stesso tempo, poiché “sono tra voi con lo spirito e gioisco vedendo la vostra
condotta ordinata e la saldezza della vostra fede in Cristo” (2,5). Paolo
continua ad essere fiducioso del loro comportamento di credenti ed ha fiducia
poiché “siete radicati e fondati e sapete rendere grazie, come vi è stato
insegnato”(2,7).
L’apostolo si preoccupa che non si innestino verità spurie, o da quel mondo ebraico che si
contrappone alla fede in Gesù o dalla “filosofia con vuoti raggiri ispirati
alla tradizione umana, secondo gli elementi del mondo e non secondo Cristo”
(2,8). Più avanti, ai versetti 2,16-23, si trovano le spiegazioni e lo sviluppo
di queste preoccupazioni. C’è il pericolo che qualcuno “faccia di voi sua preda
con la filosofia e con vuoti raggiri ispirati alla tradizione umana, secondo
gli elementi del mondo e non secondo Cristo (2,9). Infatti vi possono ridurre «in schiavitù», proprio voi
che, una volta, siete stati liberati dal potere delle tenebre e affrancati da
Cristo (1,13s). “Rinnegando Cristo per ritornare agli errori antichi, voi
ricadete in schiavitù”, dice Paolo. La conclusione è una splendida sintesi della teologia di Gesù: “È in lui che abita corporalmente tutta la pienezza
della divinità, e voi partecipate della pienezza di lui” (2,9-10). La pienezza della divinità è qui
precisata dall’avverbio «corporalmente» e dalla « divinità»: è Cristo risorto
che unisce in sé, insieme, tutto il mondo divino, a cui appartiene con il suo
essere preesistente e glorificato, e tutto il mondo creato, che ha assunto
direttamente, insieme, con la sua incarnazione e la sua risurrezione. In Lui
c’è la pienezza dell’essere.
E’
Gesù che apre l’orizzonte del cammino verso il Padre ed offre lucidità per
capire e la forza dello Spirito, il suo Spirito, per camminare. Perciò bisogna
stare attenti, non solo a non lasciarsi contaminare dalle mentalità circolanti
ma anche a non farsi provocare né dalla ricchezza né dalla violenza che ci
inducono sulle strade che il Signore Gesù ha rifiutato.
Gli
ultimi interventi distruttivi e osceni che avvengono per mano di
fondamentalisti Islamici, in nome di Allah, mentre bestemmiano lo stesso Dio
musulmano, chiamandolo “grande” nella morte, offendono ogni uomo che ha una sua dignità, più grande di ogni
suo peccato. Gesù ci ha detto che ogni persona, giusto o peccatore, è figlio di
Dio e la nostra civiltà occidentale, pur con fatica, è arrivata a rifiutare la
pena di morte e sta faticosamente cercando di rifiutare la guerra. Ogni vita è
intoccabile.
I
fatti di strage del 7 gennaio 2015 a Parigi, che ci sono molto vicini insieme
alle stragi e alle violenze dell’Asia minore e dell’11 settembre 2001 a NewYork, che pure ci sembrano lontane,
vogliono provocarci, nella nostra sensibilità, alla reazione altrettanto
omicida e impazzita. Ma la Parola di Gesù ci induce a non lasciarci provocare
né contro la religione Musulmana che non si degrada a questa barbarie, né
contro i credenti musulmani che si trovano tra noi perché tutti insieme
possiamo credere che il Signore creatore di tutti sia amorevole e desideroso
del rispetto della vita.
Vangelo
Giovanni 2, 1-11
In quel tempo (1Il terzo giorno) vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù. 2Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli. 3Venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: «Non hanno vino». 4E Gesù le rispose: «Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora». 5Sua madre disse ai servitori: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela».6Vi erano là sei anfore di pietra per la purificazione rituale dei Giudei, contenenti ciascuna da ottanta a centoventi litri. 7E Gesù disse loro: «Riempite d’acqua le anfore»; e le riempirono fino all’orlo. 8Disse loro di nuovo: «Ora prendetene e portatene a colui che dirige il banchetto». Ed essi gliene portarono. 9Come ebbe assaggiato l’acqua diventata vino, colui che dirigeva il banchetto – il quale non sapeva da dove venisse, ma lo sapevano i servitori che avevano preso l’acqua – chiamò lo sposo 10e gli disse: «Tutti mettono in tavola il vino buono all’inizio e, quando si è già bevuto molto, quello meno buono. Tu invece hai tenuto da parte il vino buono finora».11Questo, a Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui.
E’
la terza manifestazione (dopo l’Epifania) del volto di Dio attraverso Gesù. Qui
siamo in un clima di festa, di gioia, di gratuità, di superfluo. Di quel “di
più” che rende appagata e appetibile la vita, che la fa traboccare sul piano
del contribuire ad una felicità.
Infatti
una festa di nozze è ricca di promesse, di speranze, di vita: per questo tutto
deve svolgersi ed essere nel modo migliore.
E
il vino rappresenta l’esuberanza della festa, la possibilità che tutto diventi
danza, piacere di stare insieme, desiderio appagato.
Ed
è sempre l’occhio di una donna a
vigilare che tutto scorra senza intoppi, la sua iniziativa (nonostante la
risposta frettolosa e -sembrerebbe- urtante del Figlio) che supera addirittura
l’attesa, anche se non sospetta l’incredibile che avverrà.
Ma
ci sono anche collaboratori, di solito non considerati. Ci pensate alla fatica
di riempire d’acqua (dal pozzo) alle giare, recipienti di pietra pesanti? Sono
sei e contengono ciascuna da 80 a 120 litri. Quindi è tutto un andirivieni dal pozzo al banchetto, silenzioso ma alacre
per eseguire l’ordine un po’ strano di Gesù: “Riempitele fino all’orlo”. E poi
lo stupore per il vino che si ritrovano a portare all’assaggio del direttore
della mensa, e la gioia per essere stati attori di questo primo “segno” di Gesù.
Ci
vuole proprio la prontezza di rispondere senza replicare, ma aprendo subito, al
“fate quello che vi dirà”. È la consapevolezza che Gesù non si ritrae mai, anche se non concede molto alle parole,
quando c’è da eliminare un turbamento, o
da sottolineare che ci vuole un superfluo,
un di più per creare gioia e festa vera, condivisa, che non va
assolutamente trascurata, tanto meno disprezzata.