2^ domenica dopo Pentecoste



Lettura del libro del Siracide 16, 24-30


Ascoltami, figlio, e impara la scienza, / e nel tuo cuore tieni conto delle mie parole. / Manifesterò con ponderazione la dottrina, / con cura annuncerò la scienza. / Quando il Signore da principio creò le sue opere, / dopo averle fatte ne distinse le parti. / Ordinò per sempre le sue opere / e il loro dominio per le generazioni future. / Non soffrono né fame né stanchezza / e non interrompono il loro lavoro. / Nessuna di loro urta la sua vicina, / mai disubbidiranno alla sua parola. / Dopo ciò il Signore guardò alla terra / e la riempì dei suoi beni. / Ne coprì la superficie con ogni specie di viventi / e questi ad essa faranno ritorno.


Il libro del Siracide,  detto anche  "Sapienza di Sirach” e, fino a poco tempo fa,  detto anche Ecclesiastico, fu inizialmente scritto in ebraico da Ben Sira, (il nome greco è Siracide) verso il 180 a. C. Il nipote tradusse questo scritto in greco attorno al 130 a.C., lasciandone testimonianza nel prologo nel libro stesso.

È composto da 51 capitoli con vari detti di genere sapienziale, sintesi della religione ebraica tradizionale e della sapienza comune. Nell’ultimo capitolo (51,1-,30) si può leggere una breve autobiografia dell’autore stesso.

 In Israele sta penetrando nella cultura ebraica anche la cultura greca, riletta con le sue pericolose novità e il Siracide, attraverso la sua opera, vuole porre una diga morale per i suoi, per aiutare a riprendere la Sapienza delle proprie tradizioni. Coraggioso e infervorato dalla Sapienza e del culto ebraico, insiste che non ci si deve vergognare della propria ricchezza morale e della legge.

Quando il mondo ebraico stabilì il Canone (elenco ufficiale dei libri della Scrittura attorno il 90 d.C,)  non si considerò adatto questo testo, probabilmente perché la sua diffusione era avvenuta prevalentemente nel testo greco. E’ rimasto invece come testo sacro ispirato nei testi ufficiali del Canone cattolico. Perciò non è elencato nella Bibbia ebraica (22 libri), né nel Canone del mondo protestante ( che segue, per l’A.T.,  il criterio ebraico). Nelle bibbie, perciò, è elencato come Deuterocanonico.

E’ un libro che non ha una struttura definitiva e organica. Per questo gli viene dato il nome di “Raccolta di sentenze”. Si possono intravvedere, tuttavia, al suo interno, piccoli trattati su argomenti particolari.

Il testo che leggiamo oggi inizia una lunga riflessione in cui si incoraggiano i credenti ad abbandonarsi alla misericordia di Dio:16,24-18,14.

C’è un primo invito all’ascolto (vv24-25): “ascolto e attenzione del cuore”. È necessario l’ascolto per percepire il valore di un dialogo (v24) e ci vuole il desiderio di scoperta e lo spessore di un’attesa per percepire una rivelazione (attenzione del cuore: v24 b). Solo a queste condizioni un maestro accetta di entrare a scoprire la Sapienza ed è disponibile a trasmettere “dottrina e scienza” (ma, al meglio, “con esattezza e con cura”).

Il racconto si sviluppa ricordando i testi della creazione del I° racconto del libro della Genesi e in particolare, gli interventi di Dio nei primi quattro giorni. Si parla di astri, dello splendore e della legge armoniosa che ordina e regola, come per un’obbedienza alla Parola di Dio,  il loro movimento in pace. E dopo aver popolato il cielo di splendore e di luce, Dio riempie di beni la terra. Così Dio manifesta la sua grandezza e bellezza nel preparare la casa dell’uomo. Cielo e terra vivono nell’ordine e nell’armonia, rendendo bella la dimora dell’umanità che Dio vuole al centro del creato. Tra i beni regalati ci sono pure gli animali, che però ritornano alla terra con la morte. Il testo incoraggia all’armonia ed alla pace, mentre Dio opera creando (26 a), distinguendo (26b), ordinando (26 a b).


EPISTOLA
Lettera di san Paolo apostolo ai Romani 1, 16-21



Fratelli, io non mi vergogno del Vangelo, perché è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del Giudeo, prima, come del Greco. In esso infatti si rivela la giustizia di Dio, da fede a fede, come sta scritto: «Il giusto per fede vivrà». Infatti l’ira di Dio si rivela dal cielo contro ogni empietà e ogni ingiustizia di uomini che soffocano la verità nell’ingiustizia, poiché ciò che di Dio si può conoscere è loro manifesto; Dio stesso lo ha manifestato a loro. Infatti le sue perfezioni invisibili, ossia la sua eterna potenza e divinità, vengono contemplate e comprese dalla creazione del mondo attraverso le opere da lui compiute. Essi dunque non hanno alcun motivo di scusa perché, pur avendo conosciuto Dio, non lo hanno glorificato né ringraziato come Dio, ma si sono perduti nei loro vani ragionamenti e la loro mente ottusa si è ottenebrata.

La riflessione sulla fiducia,  nell’abbandono al Signore, prosegue e si articola con questo bellissimo testo di testimonianza di Paolo. L’apostolo afferma con lucidità, carico dell’esperienza e della consapevolezza della forza di Gesù, che è necessario “confessare il Vangelo”. Gesù, attraverso la croce,  porta alla salvezza. Paolo è cosciente della grandezza di questa comunione con Gesù e non ha timore di proclamarsi seguace di un condannato ad una morte da schiavo. Ha scoperto che in Gesù si nasconde la potenza di Dio, unica possibilità di riscatto. La salvezza è liberazione dal peccato e dalle sue conseguenze, attesa fiduciosa nella conclusione della storia, consapevolezza di essere stati chiamati e voluti liberi da Dio. Perciò noi stessi siamo fiduciosi nel giudizio di Dio.
La fede ci mette in contatto con il Signore e quindi con la sua giustizia che recupera il mondo e lo conduce all’armonia iniziale. “Da fede a fede”  l’apostolo pone nel ritmo del tempo la fedeltà e la costanza di credere e di affidarsi a Dio.

“Tutti gli uomini sono sotto l’ira di Dio perché non hanno realizzato una giustizia”. Il che vuol dire che non hanno vissuto la fede “(v17).

Certamente a Paolo non sfugge il problema della impossibilità di una veloce evangelizzazione: egli è consapevole che l’umanità, per lo più, è pagana. Paolo dice: “Però avevano la possibilità di accettare di conoscere Dio che, di fatto, hanno conosciuto (v19).”  Certamente, ma tale conoscenza non è diventata riconoscimento. “Potenza e divinità” non sono state percepite. Anzi sono state deturpate, confuse, rimescolate a vaneggiamenti e ottenebramenti ( 21). Così non hanno saputo dare “gloria .e grazie”.

La riflessione si sposta più in là. Se non hanno conosciuto Cristo, se non hanno intravisto lo splendore di Dio riconoscendolo, tutta l’umanità, comunque, non può dirsi dannata, ma chiamata alla giustizia. Tutta l’umanità, dice  più avanti, chiamata per vocazione al rapporto con Dio, è interpellata perché “metta in pratica la legge”. Poiché non basta l’ascolto. All’interno di questa esigenza fondamentale per ogni persona, viene rimessa in circolo la speranza. I pagani hanno, come tutta l’umanità, “per loro natura la legge”. Essi “agiscono secondo la legge, essi sono legge a se stessi” (Rom2,14).

In ogni uomo o donna esiste una legge scritta nel cuore di ciascuno a cui fare appello e a cui riferirsi. La legge non è, prima di tutto,  scritta sui libri o rotoli o tavole di pietra ma è scritta sui cuori. E’ un patrimonio che Dio ci ha regalato. Così il rapporto con Dio continua ad esserci se si pratica la legge (2,13) mentre non è sufficiente solo l’ascolto, con tutto quel corredo che sostiene le impalcature del religioso e del culto. Ci sono, sono importanti ma non sufficienti,  poiché quello che conta è mettere in pratica la legge. A questo livello sorge la consapevolezza della salvezza universale. Paolo si rende conto che non si può selezionare le persone tra chi crede e chi non crede in Gesù,  Resta un riferimento alla legge osservata secondo coscienza, E se Paolo sa che ci vuole la forza di Dio per ubbidire alla legge, sa che questo dialogo è un segreto che si svolge nel mistero dell’incontro tra Dio ed ogni persona. Di questo non possiamo giudicare poiché ognuno, su una strada misteriosa, è  legato ad un impianto morale e ad un cammino di vita.  Però Paolo sente di poter dire: “Si svelano i segreti degli uomini” mediante Cristo, che lo si sia conosciuto o no.
 

VANGELO

Lettura del Vangelo secondo Luca 12, 22-31

In quel tempo. Il Signore Gesù disse ai suoi discepoli: «Io vi dico: non preoccupatevi per la vita, di quello che mangerete; né per il corpo, di quello che indosserete. La vita infatti vale più del cibo e il corpo più del vestito. Guardate i corvi: non séminano e non mietono, non hanno dispensa né granaio, eppure Dio li nutre. Quanto più degli uccelli valete voi! Chi di voi, per quanto si preoccupi, può allungare anche di poco la propria vita? Se non potete fare neppure così poco, perché vi preoccupate per il resto? Guardate come crescono i gigli: non faticano e non filano. Eppure io vi dico: neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. Se dunque Dio veste così bene l’erba nel campo, che oggi c’è e domani si getta nel forno, quanto più farà per voi, gente di poca fede. E voi, non state a domandarvi che cosa mangerete e berrete, e non state in ansia: di tutte queste cose vanno in cerca i pagani di questo mondo; ma il Padre vostro sa che ne avete bisogno. Cercate piuttosto il suo regno, e queste cose vi saranno date in aggiunta»

Il brano del vangelo di oggi è bellissimo.

Ci mostra tutta la tenerezza di Dio.

La sua volontà per noi di essere felici. Di non farci problemi aggiuntivi e ingolfarci in preoccupazioni superflue.

Ma di “guardare”:  guardarci intorno con limpidezza per scorgere quello che vale veramente, per vedere ciò che dà ali alla nostra vita.

Perché  se allarghiamo lo sguardo e ci accorgiamo della bellezza che c’è intorno a noi e che questa bellezza è un dono che Dio ci fa per dimostrarci l’assoluta e infinita gratuità e trasparenza del suo amore, non possiamo ripiegarci su di noi e sulle nostre ansie, ma solo affidarci a Chi appunto desidera per noi quella gioia che ha i Suoi connotati di infinita presenza e consolazione.

Infatti, se leggiamo bene, il testo di Luca ha come oggetto la ‘preoccupazione’:  non ci dice di non occuparci delle cose di cui dobbiamo avere cura e che sono affidate al nostro impegno e alla nostra responsabilità, ma di non preoccuparci, cioè di non finalizzarci ad esse con ansia ed affanno, puntando su di noi e sulle nostre azioni, come se tutto dipendesse da noi.


Sembra invece che ci dica: prendete fiato, non ponetevi nella vita con presunzione e superbia, ma cercate di guardare, andare oltre,  fermarvi a contemplare, perché l’artista della vita non siete voi, ma il Padre, infinitamente ricco di premura e di attenzione, e  perché la vita va scoperta bella, va resa bella.

Certo, occorre avere gli occhi di Gesù, la volontà e i desiderio di andare oltre i nostri angusti orizzonti e spaziare nella scia dello sguardo di Dio, cioè di uno sguardo colmo d’amore, capace di commozione e carezzevole.

Ma come si fa a metterci in questa prospettiva, con tutto il male e l’odio che si rovesciano sul mondo e  la violenza con cui  gli umani si massacrano a vicenda, che sembrano toglierci ogni respiro di bontà e di presenza di Dio?


Gesù stesso ce lo dice, che il male si vince con il bene e che ogni bruttura e sofferenza va lenita  con un ‘surplous’ d’amore e di, per così dire, dissotterramento della bellezza e della bontà.

Sapendo che c’è un Padre che fa germogliare un fiore sull’asfalto o tra i ruderi di una città distrutta.  Basta guardare per vedere.

E in questo fiore si racchiude tutta la sua –e forse anche nostra- volontà  d’amore.