4^ Domenica di Avvento


LETTURA
Lettura del profeta Isaia 4, 2-5 

In quel tempo. Isaia disse: «In quel giorno, il germoglio del Signore crescerà in onore e gloria e il frutto della terra sarà a magnificenza e ornamento per i superstiti d’Israele. Chi sarà rimasto in Sion e chi sarà superstite in Gerusalemme sarà chiamato santo: quanti saranno iscritti per restare in vita in Gerusalemme. Quando il Signore avrà lavato le brutture delle figlie di Sion e avrà pulito Gerusalemme dal sangue che vi è stato versato, con il soffio del giudizio e con il soffio dello sterminio, allora creerà il Signore su ogni punto del monte Sion e su tutti i luoghi delle sue assemblee una nube di fumo durante il giorno e un bagliore di fuoco fiammeggiante durante la notte, perché la gloria del Signore sarà sopra ogni cosa come protezione».



Un bellissimo annuncio di speranza nasce da una condizione di sofferenza e di sconfitta. Il primo versetto parla addirittura di “sette donne che afferrano un sol uomo  e gli domandano di «portare il suo nome», cioè che possano averlo come loro signore e loro marito poiché gli uomini della città sono stati decimati dalla guerra (3,25-26). Le figlie orgogliose di Gerusalemme diventeranno concubine, ma sono disposte a sposare insieme un uomo solo e a mantenerlo, pur di averlo marito e di avere da lui dei figli. Non essere sposata era considerato essere disonorata, perché infeconda e priva di futuro (Dt 25,5-6). 
Il profeta intravede una speranza nel futuro. Tutto inizia con “il germoglio del Signore”, che sarà il Messia (Ger 23,5=33,15;Zc 3,8;6,12), e il “frutto della terra” che può indicare le benedizioni di Dio sulla terra e la ricchezza che rinasce sul suolo di Palestina.
Questo testo è probabilmente una riflessione maturata dopo l’esilio di Babilonia che riassume per i ritornati, i superstiti, il futuro di speranza.
Tutta la spiritualità ebraica conduce alla consapevolezza che la propria infedeltà causa la rovina di tutto il popolo, ma conduce con  altrettanta fiducia alla convinzione che Dio ama il suo popolo e, quindi, un piccolo «resto» sfuggirà alla spada degli invasori e sopravvivrà. Ne parlano molti profeti: Amos, Isaia, Michea, Sofonia, Geremia ed Ezechiele.
Rimasto a Gerusalemme, questo “resto” continuerà a mantenere il valore di un popolo, fatto  santo da Dio, ora purificato e ormai fedele. Esso diventerà una nazione potente.
Dopo la catastrofe del 587, quando Gerusalemme fu distrutta completamente, si pensò che il “resto” era tra i deportati, Convertendosi durante l’esilio alla legge del Signore e purificandosi dagli idoli che avevano in precedenza accettato, sarebbero sopravvissuti.
Ci sono i ricordi del tempo dell’Esodo poiché si elenca la nube di giorno e il bagliore di notte come segno della presenza e della protezione di Dio. E’ il tempo dell’Alleanza, del fidanzamento e del matrimonio con Dio. La “protezione”, qui ricordata, è anche un particolare riferimento al baldacchino, chiamato “chuppà”  che ancora oggi è un elemento essenziale per la celebrazione delle nozze. Può essere  un telo o una copertura e richiama la tutela di Dio..
La comunità cristiana vedrà in Cristo il vero «germoglio» dell’Israele nuovo e santificato.

EPISTOLA 
Lettera agli Ebrei 2, 5-15 

Fratelli, non certo a degli angeli Dio ha sottomesso il mondo futuro, del quale parliamo. Anzi, in un passo della Scrittura qualcuno ha dichiarato: «Che cos’è l’uomo perché di lui ti ricordi o il figlio dell’uomo perché te ne curi? / Di poco l’hai fatto inferiore agli angeli, / di gloria e di onore l’hai coronato / e hai messo ogni cosa sotto i suoi piedi». Avendo sottomesso a lui tutte le cose, nulla ha lasciato che non gli fosse sottomesso. Al momento presente però non vediamo ancora che ogni cosa sia a lui sottomessa. Tuttavia quel Gesù, che fu fatto di poco inferiore agli angeli, lo vediamo coronato di gloria e di onore a causa della morte che ha sofferto, perché per la grazia di Dio egli provasse la morte a vantaggio di tutti. Conveniva infatti che Dio – per il quale e mediante il quale esistono tutte le cose, lui che conduce molti figli alla gloria – rendesse perfetto per mezzo delle sofferenze il capo che guida alla salvezza. Infatti, colui che santifica e coloro che sono santificati provengono tutti da una stessa origine; per questo non si vergogna di chiamarli fratelli, dicendo: «Annuncerò il tuo nome ai miei fratelli, / in mezzo all’assemblea canterò le tue lodi»; / e ancora: / «Io metterò la mia fiducia in lui»; / e inoltre: «Eccomi, io e i figli che Dio mi ha dato». Poiché dunque i figli hanno in comune il sangue e la carne, anche Cristo allo stesso modo ne è divenuto partecipe, per ridurre all’impotenza mediante la morte colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo, e liberare così quelli che, per timore della morte, erano soggetti a schiavitù per tutta la vita.


Nella Comunità cristiana c’è molta stanchezza che può portare al rilassamento. Bisogna, infatti, ubbidire con maggior impegno alla Parola di Gesù, con una coerenza e attenzione più mature che non l’ubbidienza della legge ebraica. Se la legge è stata data dagli angeli e “ si è dimostrata salda, ed ogni trasgressione o disubbidienza ha ricevuto giusta punizione” (Eb 2,2), tanto più bisogna prendere sul serio una salvezza così grande, portata da Gesù. Dio stesso ha messo mano: è “il mondo futuro della salvezza”. Tale salvezza “cominciò a essere annunciata dal Signore, e fu confermata a noi da coloro che l’avevano ascoltata, mentre Dio ne dava testimonianza con segni e prodigi e miracoli d’ogni genere e doni dello Spirito Santo, distribuiti secondo la sua volontà” (Eb 2,4-5).
Questo futuro ci viene da Gesù. Egli è vero uomo, come ogni uomo che “di poco hai fatto inferiore agli angeli” (Eb 2,7 che si rifà al salmo 8,5). Egli, che si è abbassato” poiché nella sua vita mortale si è privato della sua gloria (Fil 2,6-11: “svuotò se stesso, pur essendo Dio”), ha vissuto come ogni altro uomo la sua limitatezza, ma accettò fino in fondo la volontà del Padre, arrivando alla morte. Perciò il Padre lo ha «coronato», e alla fine dei tempi avrà il dominio su tutto. Questo è il mondo nuovo che porta la salvezza e che è tutto nelle mani di Gesù. Noi non ce ne rendiamo ancora conto di questa sovranità di Gesù sul mondo (Eb2,8) e i primi cristiani, che si sentono disprezzati e perseguitati, sembra che attendano con fatica, ancora, l’avvento del regno di Dio sulla terra (2Pt 3,4). Ma Cristo è già entrato nella gloria, e si è conquistato questo primato sugli angeli per sé ed anche per tutti noi.
E’ sempre una strana scoperta ritrovare nella Parola di Dio che “le sofferenze e la morte rendono perfetto Cristo in quanto Salvatore, incaricato di introdurre gli uomini nella gloria di Dio.
Il verbo «rendere perfetto», «compiere», ritorna spesso nella lettera: evoca i diversi effetti dell’opera di Cristo nella relazione che l’uomo ha con Dio ed evoca anche il rito di consacrazione dei sacerdoti, l’«azione di riempire le mani (con le vittime)».
In questa salvezza Gesù crea una unità di cammino, anzi una parentela che lega tutti noi in una fraternità con Lui. C’è una comunione   che ci viene dall’essere partecipi alla stessa natura umana di Cristo; “il sangue e la carne sono comuni”. E questo ci libera dalla paura poiché Uno di noi sa lottare contro colui che ha il potere della morte, cioè Satana.
Il messaggio che ci viene è grande: nessuno ci faccia paura se siamo nella linea di Gesù che ci raccomanda al Padre, ci libera da Satana e dal male, ci riscatta dalla schiavitù che ci viene dalla fragilità e soggezione.


VANGELO 
Lettura del Vangelo secondo Luca 19, 28-38 


In quel tempo. Il Signore Gesù camminava davanti a tutti salendo verso Gerusalemme. Quando fu vicino a Bètfage e a Betània, presso il monte detto degli Ulivi, inviò due discepoli dicendo: «Andate nel villaggio di fronte; entrando, troverete un puledro legato, sul quale non è mai salito nessuno. Slegatelo e conducetelo qui. E se qualcuno vi domanda: “Perché lo slegate?”, risponderete così: “Il Signore ne ha bisogno”». Gli inviati andarono e trovarono come aveva loro detto. Mentre slegavano il puledro, i proprietari dissero loro: «Perché slegate il puledro?». Essi risposero: «Il Signore ne ha bisogno». Lo condussero allora da Gesù; e gettati i loro mantelli sul puledro, vi fecero salire Gesù. Mentre egli avanzava, stendevano i loro mantelli sulla strada. Era ormai vicino alla discesa del monte degli Ulivi, quando tutta la folla dei discepoli, pieni di gioia, cominciò a lodare Dio a gran voce per tutti i prodigi che avevano veduto, dicendo: «Benedetto colui che viene, / il re, nel nome del Signore. / Pace in cielo / e gloria nel più alto dei cieli!».


“Il  Signore Gesù camminava davanti a tutti salendo verso  Gerusalemme”.
E’ come se volesse affrettare ciò che lo attende  a Gerusalemme.
Sì, certo: i discepoli, che sperano finalmente in una sua chiara affermazione  nella Città Santa, cercano di accompagnare questa sua entrata esaltandolo e riconoscendolo come Messia: stendono i loro mantelli a dimostrazione della loro convinzione e della loro amicizia.
Gesù si ferma al monte degli Ulivi, per inviare due discepoli a prendere l’asino su cui salirà per entrare.
Ha bisogno dell’asino. Lo sottolinea ai discepoli, come a voler far capire il significato di questa sua entrata in Gerusalemme, al di là di quanto pensa chi gli sta intorno.
E’ un’entrata in umiltà e mitezza, non dall’alto di una cavalcatura imponente a dimostrare potenza e dominio, ma dal basso, tra la gente ininfluente che gli si affolla intorno, come a dire che per entrare in città –e per di più in una città “santa”- ci vuole rispetto, non imposizione di clichés tradizionali e ossequiosi, ma attenzione e attesa:  ci si deve infatti attendere di tutto.

E per questa umiltà e mitezza ci vuole condivisione; ci vuole chi mette e si mette a disposizione per consentire al Signore di manifestarsi quale Egli è e non come lo vorremmo noi.
Gesù si mescola tra la gente: stiamo assistendo alla sua “incarnazione” nella nostra umanità.  L’incarnazione infatti non si esaurisce nella nascita, nel Natale, ma si compie pienamente a Gerusalemme dove avverrà il compimento della sua vita nel dono e nell’assoluta obbedienza al progetto di Dio.

Ci sono tante domande per noi oggi:
Ci rendiamo conto di che cosa vuol dire “entrare in città, secondo Gesù”?
Mescolarsi con la gente in umiltà e mitezza per scrostare le durezze dei formalismi e delle indifferenze, per deporre i nostri “mantelli” cioè le nostre sicurezze e le nostre disponibilità sulla strada del Signore, proprio perché ne possano sorgere lodi di ringraziamento, sorrisi di gioia, sguardi di comprensione e di immedesimazione?
Ci pensiamo che l’Incarnazione di Gesù si prolunga nella nostra capacità di ‘incarnarci’ anche noi, che veniamo a Messa e ci diciamo discepoli del Signore, tra la gente con mitezza e umiltà?
Con misericordia?