4^ domenica dopo il martirio di San Giovanni il Precursore


LETTURA 
Lettura del primo libro dei Re 19, 4-8
In quei giorni. Elia s’inoltrò nel deserto una giornata di cammino e andò a sedersi sotto una ginestra. Desideroso di morire, disse: “Ora basta, Signore! Prendi la mia vita, perché io non sono migliore dei miei padri”. Si coricò e si addormentò sotto la ginestra. Ma ecco che un angelo lo toccò e gli disse: “Àlzati, mangia!”. Egli guardò e vide vicino alla sua testa una focaccia, cotta su pietre roventi, e un orcio d’acqua. Mangiò e bevve, quindi di nuovo si coricò. Tornò per la seconda volta l’angelo del Signore, lo toccò e gli disse: “Àlzati, mangia, perché è troppo lungo per te il cammino”. Si alzò, mangiò e bevve. Con la forza di quel cibo camminò per quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio, l’Oreb.

Elia si è opposto alla idolatria ed ha affrontato anche il “giudizio di Dio” con una sfida ai 450 sacerdoti di Baal, il Dio fenicio. Aveva vinto con il fuoco dal cielo che il Signore ha inviato  ed ha incenerito con l’offerta anche tutto l’altare di pietra (1 Re. 18, 16b-40a). Ma la successiva vendetta di Elia, che riteneva di vendicare l’onore di Dio uccidendo i sacerdoti di Baal, e insieme la sofferenza e la sottomissione dei suoi gli allontanò ancora il popolo che, dopo un momento di esultanza e di alleanza con Elia, era ritornato ad essere soggetto al re e alla moglie Gezabel, figlia del re di Tiro (pagana) e ardente missionaria della sua religione pagana. Così Elia fuggì intraprendendo un pellegrinaggio al monte Sinai, alla ricerca del volto di Dio, come per Mosè, poiché non capiva più il comportamento di Dio verso di lui e il suo popolo. Egli voleva scoprire le strategie di Dio, ma ricevette una esperienza, assolutamente diversa da come se la sarebbe immaginata.
Il primo significato di questo brano è la ricerca di Dio e delle sue scelte. Elia era fedele e non comprendeva. Ma non voleva scoraggiarsi perché lo alimentavano una fede profonda ed una fiducia che gli faceva superare la fatica del disorientamento.
Dio non è facile da accostare. Egli si nasconde e questo provoca scoraggiamento (v. 3), la tentazione classica del profeta {Gen 21,14-21; Giona 4,3-8; Num 11,15; Ger 15,10-11; Mt 26,36-46). Eppure Elia ha riportato una grande vittoria al Carmelo (1 Re 18). Ma la solitudine del dover reggere la fatica di un popolo infedele lo ridusse alla prospettiva di abbandonare, di fermarsi e di dormire, stremato dal buio che aveva davanti a sé. La regina Gezabel aveva ancora vinto, Elia si ritrovò quindi solo, come più tardi Cristo; non gli rimase che rimettersi a Dio.
Ma Dio gli offrì una segno per trarlo dalla disperazione;. Non abbandonò il suo eletto, così come non abbandonerà il suo Cristo (Le 22,43). Un pane e un'acqua miracolosi (v. 6) ricordavano ad Elia la manna del deserto e l'acqua della roccia (Es 16,1-35; 17,1-7). Così, il memoriale della Pasqua del popolo fu il mezzo più sicuro per curare lo scoraggiamento.
Il Signore suggerì di misurarsi a Mosé, il mediatore che spesso si sentiva solo. Ma nutriva un profondo amore al suo popolo, pur infedele, e una profonda fiducia in Dio con cui discuteva e si confrontava. Ma il cammino lo doveva fare tutto. Elia non venne sollevato su ali di aquila, né dispensato dalla fatica del camminare su un terreno inospitale. Ma scoperse che l Signore si fidava di lui e  lo attendeva. Infatti camminerà quaranta giorni (v. 8): il tempo della prova, della conversione, della vita.
L'accostamento fra Elia e Mosé ci viene ricordato anche nel Vangelo nel momento in cui Gesù si: svela nella Trasfigurazione per incoraggiare i discepoli a non disorientarsi di fronte alla morte di croce di Gesù stesso. Essi indicano la gratuità nei confronti di Dio e del suo popolo. Così essi furono chiamati e tutto quello che facevano era a servizio di un popolo perché potesse crescere. Essi aiutavano il Signore a realizzare il sogno di un popolo santo. (Mt 17,3; Apoc 11,1-13).
Finché il cristiano ha la certezza di possedere la «virtù» ed è sicuro della sua « verità » in tasca, finché il sacerdote è sicuro di sé, del suo ruolo e della sua influenza, c'è ancora posto per Dio? Queste sicurezze e queste certezze sono troppo umane per essere segno di Dio. Quando invece tutto ciò crolla improvvisamente — e ogni vita conosce questo smarrimento —, quando le virtù che si credeva di possedere diventano, ad un tratto, peccati e viltà, quando le verità tranquillanti e i luoghi comuni e le regole di società e i diritti di casta sono ad un tratto messe in discussione, Dio può finalmente agire.

EPISTOLA
Prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi 11, 23-26
Fratelli, io ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: “Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me”. Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: “Questo calice è la Nuova Alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me”. Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga.

Siamo attorno all'anno 56 d.C. e Paolo vuole impegnare l'assemblea a consolidarsi, partecipando al pasto sacro comune, con la prospettiva, non tanto di catturare Gesù e tenerselo vicino, quanto per alimentare sé e gli altri fratelli e sorelle nelle loro vocazione e nelle sue scelte.
Di Corinto, una comunità che Paolo conosce bene perché vi ha abitato molti mesi, si ricordano le divisioni e gli scandali presenti nella comunità. L’apostolo vuole mettere ordine, soprattutto vuole intervenire nelle assemblee comunitarie quando ci si ritrova, in particolare, per l'Eucaristia.
Nei capitoli che vanno dall'11 al 14, per inquadrare il testo di oggi, Paolo prende in considerazione alcune deviazioni presenti nella Comunità (11,2-14,40): il comportamento delle donne in assemblea (11,2-16), il modo di celebrare la Cena del Signore (11,17-34), il retto uso dei doni dello Spirito (carismi) nella Comunità (cc.12-14). Qui, dove si parla della "Cena del Signore", ci sono elementi importanti che hanno trasformato la cena Pasquale di condivisione in cena dove si celebrano la croce e il sacrificio di Gesù.
Si parla, in particolare, del fare memoria.. Fare memoria non è tanto un ricordare ma è rendere presente la realtà, l'evento che si vuole ricordare. Gesù stesso, celebrando la Pasqua ebraica, ha fatto memoria del dono della liberazione ed ha anticipato nel gesto, che compie nella cena, il dono di amore al Padre, mediante la croce.
La Comunità di Corinto è composta, nella quasi totalità, da gente povera, braccianti, scaricatori del porto, schiavi. I ricchi sono pochi, ma si fanno notare per la loro supponenza. Quando si trovano per lo spezzare del pane, già nel primo pomeriggio si abbandonano a gozzoviglie mentre i fratelli sono al lavoro. Quando, sfiniti dal lavoro, questi ultimi si presentano per la celebrazione, sono accolti con disprezzo. Paolo, allora, è preoccupato di chiarire il significato dello spezzare il pane. “Non avete forse le vostre case per mangiare e per bere?” (che significa: “Se avete voglia di mangiare e bere, state a casa vostra” (11,22).
Il trovarsi allo spezzare il pane ci offre la possibilità di rendere presente e di celebrare il dono di Gesù al Padre che si esprime pienamente nella morte sul Calvario per una profonda comunione con i fratelli. Ma il celebrare ci invita non solo al gesto liturgico ma, attraverso quello, a ripetere ciò che il gesto significa e di cui Gesù è il modello. Proprio per questa comunione S. Paolo si preoccupa: i credenti di Corinto hanno trasformato la cena del Signore in un segno menzognero che non può essere accettato. Non sono sinceri perché prendono parte ad un corpo che viene donato e al sangue che viene sparso per gli altri senza donarsi, a loro volta, per i fratelli. Paolo vuol far capire che l'Eucaristia, mentre offre la presenza unificante di Gesù che ama e muore per amore, simboleggia e realizza l'unione di tutti i membri nell'unico corpo di Cristo che è la Chiesa. Spezzare il pane è un gesto di comunione e di disponibilità a donare se stessi come ha fatto Gesù. Se ci sono altri criteri, questa Comunità "mangia e beve la propria condanna" (11,28-29) perché la celebrazione diventa menzogna.
Il bere allo stesso calice, poi, nella cultura semitica, significa essere disponibili a condividere lo stesso destino fino alla morte.
Quello che è difficile capire è che la liturgia corre sempre il rischio di diventare solo rito, pratica a cui si partecipa per dovere senza rendersi conto che, se si è in comunione con Gesù, ovviamente, si imposta seriamente una comunione con i fratelli. Altrimenti, senza questa coscienza e questa fede, resta solo un gesto formale che non alimenta e non salva nessuno.
La cena del Signore è così messa al centro, fonte e culmine dell'esistere della Chiesa, dono grande per una comunità che resta nell'attesa, dono che significa impegno di responsabilità nella storia, dono per ricordare a vivere l'amore totale di Gesù.

VANGELO
Lettura del Vangelo secondo Giovanni 6, 41-51

In quel tempo. I Giudei si misero a mormorare contro il Signore Gesù perché aveva detto: “Io sono il pane disceso dal cielo”. E dicevano: “Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui non conosciamo il padre e la madre? Come dunque può dire: “Sono disceso dal cielo”?”. Gesù rispose loro: «Non mormorate tra voi. Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Sta scritto nei profeti: E tutti saranno istruiti da Dio. Chiunque ha ascoltato il Padre e ha imparato da lui, viene a me. Non perché qualcuno abbia visto il Padre; solo colui che viene da Dio ha visto il Padre. In verità, in verità io vi dico: chi crede ha la vita eterna. Io sono il pane della vita. I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti; questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia. Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo”.

Siamo nella sinagoga di Cafarnao dove Gesù si sta proponendo come “pane della vita” in un discorso molto sconcertante che turba e sconcerta la folla, i Giudei, i discepoli.
Tant’è vero che la prima annotazione che troviamo in questo testo del cap.6 di Giovanni  riguarda il fatto che “si misero a mormorare”, suscitando l’invito esplicito di Gesù a non farlo: “Non mormorate tra voi”.
E’ che le parole di Gesù sono sconcertanti perché Gesù propone se stesso come ‘pane disceso dal cielo… Perché chi ne mangia non muoia”. E addirittura precisa che questo pane vivo è la sua carne; anzi poco più sotto (v 55-56) dirà ancora più chiaramente: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue è vera bevanda.  Chi  mangia la mia carne  e beve il mio sangue dimora in me e io in lui”.
C’è veramente di che scandalizzarsi. Ma chi crede di essere Gesù per dirci cose inverosimili, sconcertanti?
E allora si mormora, perché non si riesce a capire, perché ci si lascia prendere dalla delusione, dall’incredulità: qui non si tratta di accogliere qualcosa di diverso dagli schemi, qualcosa di nuovo, ma addirittura di accettare un’assurdità, un controsenso, un rovesciamento totale della fede tradizionale, che tutto sommato non scomoda troppo.
Viene da pensare al nostro atteggiamento di mormorazione quando non si ha il coraggio di andare a fondo, di capire, di cercare di conoscere il Signore Gesù, di dargli credito, di soppesare quanto ci dice; quando siamo delusi da Lui e ci rifugiamo in una spiritualità di comodo che sorvola le questioni fondamentali.
Perché qui la questione fondamentale, al di sopra e al di dentro dei linguaggi particolari, è il farsi ‘cibo’ di Gesù, un farsi cibo concreto, che alimenta e fa crescere, che trasforma in vita, che unisce profondamente, indissolubilmente.
Ed è un richiamo per chi lo segue: anche noi dobbiamo, se diciamo e vogliamo seguirlo,  farci cibo per l’altro, farci ‘pane’, in modo che le nostre vite si assimilino a vicenda e che le nostre relazioni siano veramente sostanziali.  Proprio perché ci ‘cibiamo’ di Lui nell’Eucaristia e nella Sua Parola.
Lasciare che l’altro, gli altri si cibino di noi significa allora, porsi nella nostra esistenza disarmati, sentendosi donati  per la vita, per far crescere vita, per arricchire la vita di vitalità e di creatività, di bellezza e di desiderio, di ricerca e di incontro.
Certo, la posta è alta: meglio andarsene; e molti se ne vanno. Ma Gesù ci rincorre con la sua domanda accorata: ”Volete andarvene anche voi”?