7^ Domenica di Pasqua (Domenica dopo l'Ascensione)

LETTURA 
Lettura degli Atti degli Apostoli 7, 48-57 
In quei giorni. Stefano disse: «L’Altissimo non abita in costruzioni fatte da mano d’uomo, come dice il profeta: / “Il cielo è il mio trono / e la terra sgabello dei miei piedi. / Quale casa potrete costruirmi, dice il Signore, / o quale sarà il luogo del mio riposo? / Non è forse la mia mano che ha creato tutte queste cose?”. Testardi e incirconcisi nel cuore e nelle orecchie, voi opponete sempre resistenza allo Spirito Santo. Come i vostri padri, così siete anche voi. Quale dei profeti i vostri padri non hanno perseguitato? Essi uccisero quelli che preannunciavano la venuta del Giusto, del quale voi ora siete diventati traditori e uccisori, voi che avete ricevuto la Legge mediante ordini dati dagli angeli e non l’avete osservata». All’udire queste cose, erano furibondi in cuor loro e digrignavano i denti contro Stefano. Ma egli, pieno di Spirito Santo, fissando il cielo, vide la gloria di Dio e Gesù che stava alla destra di Dio e disse: «Ecco, contemplo i cieli aperti e il Figlio dell’uomo che sta alla destra di Dio». Allora, gridando a gran voce, si turarono gli orecchi e si scagliarono tutti insieme contro di lui.

Stefano, nella comunità ebraica di lingua greca in Gerusalemme, piccola rispetto alla vasta comunità di lingua ebraica, è una presenza particolarmente vivace ma anche sconcertante. “Stefano intanto, pieno di grazia e di potenza, faceva grandi prodigi e segni tra il popolo” (At 6,8). Una presenza così pubblica, carica di segni di liberazione e di parola profetica, che esalta Gesù, vivissimo nella memoria e da pochissimo giustiziato, suscita rancore e rabbia. Perciò “alcuni della sinagoga detta dei Liberti…, sollevarono il popolo, gli anziani e gli scribi, piombarono addosso a Stefano, lo catturarono e lo condussero davanti al sinedrio” (6,9-12). Luca sviluppa la difesa di Stefano, riportando il lungo discorso che percorre la storia di Israele, riletta alla luce di Cristo. Rappresenta un esempio di predicazione biblica in uso nella Chiesa delle origini, particolarmente comprensibile da parte degli ebrei, anche se non da tutti accettata.
Nel testo che oggi leggiamo, si pone il valore del tempio che è diventato pericolosamente intoccabile, pena la morte per chiunque lo avesse svalutato. Anche il processo di Gesù è incominciato con l’accusa sul tempio. Ma Stefano cita il profeta Isaia (66,1-2: atti 7, 49-50) in cui si afferma che Dio è presente ovunque, al di là di ogni "spazio sacro".
Stefano difende la testimonianza di Gesù che è il Giusto e accusa implacabilmente  “i padri e voi, traditori ed assassini” (v 52). Mentre i responsabili della sinagoga stanno decidendo la morte, viene riferita, in sintesi, la visione di Gesù (in piedi) alla destra di Dio che indica la pienezza del Messia vittorioso. Stefano vede la “gloria” di Dio, parola che si usa, insieme alla “presenza”,  non potendo dire: ”Ho visto Dio e Gesù alla sua destra”.
Stefano, e quindi la Comunità cristiana di cui, in questa occasione, Stefano è il portavoce, offrono una sintesi della fede che in Gesù converge e prende forma. Il messaggio di Stefano rimette in discussione pratiche e culto che, nella visione di Gesù che muore e risorge, debbono essere ripensati, ridimensionati,  mutati.
Gesù è il giusto e ci obbliga a pensarlo, comunque lo abbiamo considerato, Parola e volontà del Padre. In tal modo ci obbliga a rileggere  nella storia che cosa vale davvero. Tutta la struttura che si è costituita, la religione che si è organizzata, le scelte che sono state fatte, i criteri che ci hanno condotto via via nel tempo: tutto questo, ci dice Stefano, va riesaminato alla luce della morte di Gesù che è stato glorificato ed è veramente colui che conta e verifica e giudica  il senso della vita e della coerenza.

EPISTOLA 
Lettera di san Paolo apostolo agli Efesini 1, 17-23 
Fratelli, il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una profonda conoscenza di lui; illumini gli occhi del vostro cuore per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi e qual è la straordinaria grandezza della sua potenza verso di noi, che crediamo, secondo l’efficacia della sua forza e del suo vigore. Egli la manifestò in Cristo, / quando lo risuscitò dai morti / e lo fece sedere alla sua destra nei cieli, / al di sopra di ogni Principato e Potenza, / al di sopra di ogni Forza e Dominazione / e di ogni nome che viene nominato / non solo nel tempo presente ma anche in quello futuro. / «Tutto infatti egli ha messo sotto i suoi piedi» / e lo ha dato alla Chiesa come capo su tutte le cose: / essa è il corpo di lui, / la pienezza di colui che è il perfetto compimento di tutte le cose.

Paolo saluta i destinatari della sua lettera,  all’inizio, augurando “grazia e pace”(1,1). E’ il miglior augurio che si possa fare come dono che proviene dal Padre e da Gesù: la grazia è l’accoglienza di Dio che diventa pienezza nel cuore di ogni persona, la pace è il corredo di ogni armonia che trasforma i rapporti con gli uomini e le donne e il rapporto con il creato.
Poi Paolo prosegue: Dio ci ha benedetti e ci ha prescelti: “Il Signore ci ha ricolmati di ogni sorta di benedizione spirituale in Cristo” (3). E l’elenco delle benedizioni è lungo e prezioso. Ci serve riprenderle, per scoprire la ricchezza di cui siamo fatti segno anche noi, credenti come i fratelli e le sorelle di Efeso.
I. benedizione: la vocazione degli eletti alla vita beata, già cominciata, misticamente, con l’unione dei fedeli a Cristo glorioso (1,4). II. benedizione: il modo scelto per questa santità: è una filiazione divina, di cui Gesù Cristo, il Figlio unico, è la fonte e il modello (1,5; cfr. Rm 8,29). III. benedizione: l’opera storica della redenzione per mezzo della croce di Cristo (1,7). IV. benedizione: la rivelazione del «mistero» (1,9; Rm 16,25). V. benedizione: l’elezione di Israele, «eredità» di Dio, come testimone nel mondo dell’attesa messianica (1,11). VI. benedizione: la chiamata dei pagani che condividono la salvezza già riservata a Israele. Essi ne hanno la certezza, ricevendo lo Spirito promesso. Il dono dello Spirito corona l’esecuzione del piano divino e la sua esposizione in forma trinitaria (1,13).
Paolo ricorda con affetto e ammirazione questa comunità che è ricca di fede nel Signore Gesù e di amore verso “tutti i santi”, i  fratelli e le sorelle credenti (v15). Lo riconosce. "Rendo grazie per voi”.
A questo punto, Paolo vuole esplicitare il contenuto e le motivazioni della sua gratitudine; ci introduce così nella ricchezza della sua fede, fondamentale per una comunità che cresce e che  rende testimonianza (15-23).  "Vi ricordo nelle mie preghiere”  (1,16) perché  il Signore “vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una profonda conoscenza di lui”. La fede è il fondamento che penetra nel mistero del Padre e quindi nella pienezza del Figlio.
La preghiera “illumini gli occhi del vostro cuore” (v 18) perché i credenti siano  orientati alla speranza. E la speranza suppone sempre un cammino. La chiamata del Signore, infatti,  è sempre un iniziare uscendo da qualche luogo, o qualche male, o qualche chiusura: uscire dall’Egitto, dalla paura, dalla solitudine, dall’angoscia, dal vuoto, dal paganesimo, da ciò che blocca senza futuro di gloria e di gioia. Il testo fa riferimento alla luce del cuore. E il cuore, nella Scrittura, è la sede della morale, della fedeltà, delle scelte, dell’amore, dello Spirito, di Gesù che vi dimora (Ef 3,17).  C’è anche un nascosto riferimento al battesimo che si richiama al rito celebrato nella notte, illuminata dai fedeli, ma soprattutto dalla presenza del Signore, chiamati ad essere “un cuore solo e un’anima sola” (At 4,32).
La forza di Dio si manifesta nella lotta contro la morte e, quindi, nella risurrezione di Gesù. Questo Dio è il nostro difensore, che ha accolto Gesù accanto a sé “alla sua destra nei cieli”, al di sopra” delle “potenze cosmiche” (qui sono elencate secondo la letteratura e la credenza corrente. Non si vuole però fare l’elenco completo, si vuole solo ricordare che non c’è nulla sopra Gesù in dignità e valore, salvo il Padre). “Dio tutto ha posto sotto i suoi piedi” (v 22). E proprio questo Messia è capo della Chiesa (comunità), un tutt'uno con i credenti, a somiglianza di un corpo che nella sua pienezza e integrità si riconosce in tutte le sue membra.
Come comunità cristiana, ci sentiamo ingigantiti dalle scelte del Padre e richiamati dalle decisioni di Gesù. Egli si è fatto, però, prima di tutto servo e quindi, poi, è stato esaltato. La grandezza della  Chiesa  non è messa all’inizio del suo itinerario, ma a conclusione, nella maturazione della sua fede e della sua carità. La grandezza della  Chiesa  è gratuita, ma deve essere maturata e si manifesta nel servire come ha fatto Gesù. Non a caso si continua a sentire da una cattedra autorevole: “Noi siamo chiamati a servire, come Gesù, non a glorificarci come se fossimo potenti. Continuiamo ad essere piccoli e poveri, grati per  essere chiamati e fiduciosi che un giorno il Padre ci farà grandi nel suo paradiso”.

VANGELO 
Lettura del Vangelo secondo Giovanni 17, 1b. 20-26 
In quel tempo. Il Signore Gesù, alzàti gli occhi al cielo, disse: «Non prego solo per questi, ma anche per quelli che crederanno in me mediante la loro parola: perché tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato. E la gloria che tu hai dato a me, io l’ho data a loro, perché siano una sola cosa come noi siamo una sola cosa. Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità e il mondo conosca che tu mi hai mandato e che li hai amati come hai amato me. Padre, voglio che quelli che mi hai dato siano anch’essi con me dove sono io, perché contemplino la mia gloria, quella che tu mi hai dato; poiché mi hai amato prima della creazione del mondo. Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto, e questi hanno conosciuto che tu mi hai mandato. E io ho fatto conoscere loro il tuo nome e lo farò conoscere, perché l’amore con il quale mi hai amato sia in essi e io in loro».

Sembra che in questi testi del vangelo di Giovanni delle domeniche di Pasqua le parole si rincorrano e si ripetano intensificando il desiderio di Gesù che rimangano accese nel cuore dei discepoli, che  non vengano sorvolate o avvertite come scontate o come sentimentalismi, ma come ragioni profonde del vivere.
Sono infatti le parole dell’amore: parole semplici, univoche, poche, perché l’amore non si perde in slogan, ma si vive, e ciascuno deve trovarne la ragione e l’intensità nel proprio cuore, nella propria interiorità.

Nel vangelo di oggi c’è una parola ricorrente, incalzante: ‘conoscere’. E’ una parola, che richiama l’atteggiamento primario, profondo dell’’amore: il conoscersi. Che nel linguaggio biblico significa incontrarsi, comprendersi, allacciare una relazione reciproca di scambio, di partecipazione, di condivisione.
Il riferimento è la conoscenza, il rapporto che Gesù ha con il Padre, l’incontro assoluto, radicale che lo unisce al Padre.

Per questo parla di unità, di comunione, che i discepoli devono imparare a vivere; e ne parla come preghiera al Padre, perchè l’uomo è incapace di amare e di creare comunione vera, così come la prospetta Gesù nel paragone con l’unità e l’amore esistente tra lui e il Padre
se non è sostenuto e orientato dall’amore di Dio.

Non si pensa mai davvero quanto sia importante la relazione e le relazioni che si vengono a costituire tra le persone; qui poi l’importanza della relazione, della conoscenza, dell’incontro è riferita alla comunità dei discepoli, alla Chiesa.  Di solito, questi rapporti si danno per scontati e spesso la testimonianza che si dà è quella della divisione, dei campanilismi, delle esclusività. Dalle grandi vicende della storia alle piccole esperienze della vita parrocchiale.

Il “mondo” , dice Gesù, può riconoscerLo come inviato del Padre a manifestare per l’umanità lo stesso amore che ha per Gesù, il Figlio, se i suoi discepoli vivranno e testimonieranno una comunione totale –“perfetti nell’unità”-.
Comunione, unità (il termine greco è il neutro, che significa ‘una cosa sola’), che non vuol dire uniformità, conformismo, ma sfaccettatura di mille volti e sorrisi, mani che si accompagnano in un cammino comune di testimonianza di amore “come” quello di Gesù, di reciproca conoscenza, comprensione e incontro, di desiderio di stare insieme.

Come l’arcobaleno, che brilla di mille colori e sfumature, differenziandosi in essi e ricomponendosi in un insieme armonioso.
O come i petali dei fiori, che in più diffondono il profumo della mitezza e della fragranza. come segno umile, segreto, bello, del loro essere insieme.