LETTURA Lettura del profeta Isaia 43, 10-21
«Voi siete i miei testimoni – oracolo del Signore – / e il mio servo, che io mi sono scelto, / perché mi conosciate e crediate in me / e comprendiate che sono io. / Prima di me non fu formato alcun dio / né dopo ce ne sarà. / Io, io sono il Signore, / fuori di me non c’è salvatore. / Io ho annunciato e ho salvato, / mi sono fatto sentire / e non c’era tra voi alcun dio straniero. / Voi siete miei testimoni – oracolo del Signore – / e io sono Dio, / sempre il medesimo dall’eternità. / Nessuno può sottrarre nulla al mio potere: / chi può cambiare quanto io faccio?». / Così dice il Signore, / vostro redentore, il Santo d’Israele: / «Per amore vostro l’ho mandato contro Babilonia / e farò cadere tutte le loro spranghe, / e, quanto ai Caldei, muterò i loro clamori in lutto. / Io sono il Signore, il vostro Santo, / il creatore d’Israele, il vostro re». / Così dice il Signore, che aprì una strada nel mare / e un sentiero in mezzo ad acque possenti, / che fece uscire carri e cavalli, / esercito ed eroi a un tempo; / essi giacciono morti, mai più si rialzeranno, / si spensero come un lucignolo, sono estinti: / «Non ricordate più le cose passate, / non pensate più alle cose antiche! / Ecco, io faccio una cosa nuova: / proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? / Aprirò anche nel deserto una strada, / immetterò fiumi nella steppa. / Mi glorificheranno le bestie selvatiche, / sciacalli e struzzi, / perché avrò fornito acqua al deserto, / fiumi alla steppa, / per dissetare il mio popolo, il mio eletto. / Il popolo che io ho plasmato per me / celebrerà le mie lodi».
Tutto il brano è un
incoraggiamento ad Israele, un popolo lontano da Gerusalemme, deportato dalla
potenza di Babilonia ed ora profondamente nostalgico di un ritorno alla terra
che il Signore gli aveva consegnato. Nella prima parte l’autore invita a
guardare indietro, su quanto il Signore ha fatto, sulla liberazione che era sta
voluta secoli prima uscendo dall’Egitto, progettata, maturata attraverso la
fede di Mosè che seppe vincere Faraone. Il popolo d’Israele deve riprendere le
sue forze ritornando alle origini, mantenendo fede alla legge ed alla memoria
dei grandi fatti, operati da Dio. Questo popolo ha sempre creduto che,
comunque, non doveva disperare e le meraviglie del Signore debbono diventare
patrimonio delle nuove generazioni. Nel Salmo 78,3-4 il popolo prega: “Ciò che abbiamo udito e conosciuto e i nostri padri ci
hanno raccontato non lo terremo nascosto ai nostri figli, raccontando alla
generazione futura le azioni gloriose e potenti del Signore e le meraviglie che
egli ha compiuto”.
Stiamo leggendo un testo del
“secondo Isaia”, scritto nel secolo VI da un profeta anonimo che ha continuato
il libro di Isaia, vissuto nel secolo VIII. Questa parte (capp.40-55) è
chiamata “Il libro della consolazione" perché, in vari momenti, vengono
annunciate liberazione e salvezza per Israele.
Ho trovato un bellissimo paragone
per cogliere lo spirito e la fede d’Israele. Israele vive la sua storia come i
rematori che avanzano, volgendo le spalle alla meta e si orientano fissando gli
occhi sul punto di partenza e sul percorso ormai fatto. Da qui l’affermazione
drammatica e altissima del Signore per mezzo del profeta: “Voi siete miei
testimoni e il mio servo che io mi sono scelto”
(43,10). Il profeta ripete i tre verbi propri della cultura ebraica nel
confronto di Dio che Dio stesso pronuncia: “Vi ho scelto perché mi conosciate e crediate in me e comprendiate che sono io”
(43,10).
Il Signore si è messo con la sua
potenza a servizio d’Israele: “Ti radunerò, ti faro tornare. Dirò al
settentrione: “restituisci e quindi al mezzogiorno non trattenere, fa tornare,
fa uscire” (43, 6-8).
Nella poesia del ritorno si
sviluppano splendide caratteristiche del Signore che garantisce di essere: “il
primo e l’ultimo, il tuo Salvatore, sono Dio, sempre il medesimo dall’eternità,
il Redentore, il Santo d’Israele. Sono il Signore, il vostro Santo, il Creatore
d’Israele, il vostro Re”(43,11-15).
A un popolo disamorato e
rassegnato viene portata una speranza che lo risvegli. Si intravede la prospettiva della distruzione
di Babilonia e, all'orizzonte, si profila il re Ciro che sconfiggerà Babilonia.
Ora, però, tutto si apre e
l’invito capovolge il modo di esaminare il tempo: ora Israele deve guardare
davanti e si deve organizzare per il futuro in un ritorno che ha le grandi
immagini della creazione: acqua, abbondanza, gioia, libertà, facilità di
cammino, convivenza con gli animali non più nemici.
Il Signore è sempre all'opera.
"Ecco, faccio una cosa
nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?" (43,19). E’ necessario
saper percepire i segni e le
tracce di Dio nell'oggi.
EPISTOLA
Prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi 3, 6-13
Fratelli, io ho piantato, Apollo ha irrigato, ma era Dio che faceva crescere. Sicché, né chi pianta né chi irriga vale qualcosa, ma solo Dio, che fa crescere. Chi pianta e chi irriga sono una medesima cosa: ciascuno riceverà la propria ricompensa secondo il proprio lavoro. Siamo infatti collaboratori di Dio, e voi siete campo di Dio, edificio di Dio. Secondo la grazia di Dio che mi è stata data, come un saggio architetto io ho posto il fondamento; un altro poi vi costruisce sopra. Ma ciascuno stia attento a come costruisce. Infatti nessuno può porre un fondamento diverso da quello che già vi si trova, che è Gesù Cristo. E se, sopra questo fondamento, si costruisce con oro, argento, pietre preziose, legno, fieno, paglia, l’opera di ciascuno sarà ben visibile: infatti quel giorno la farà conoscere, perché con il fuoco si manifesterà, e il fuoco proverà la qualità dell’opera di ciascuno.
La Comunità cristiana fatica a
maturare criteri di libertà e di fraternità poiché tende a dividersi in gruppi
contrapposti, scambiando i predicatori o i missionari come politici o
capiscuola di filosofia da contrapporre gli uni agli altri. Paolo rimprovera
quelle divisioni che stanno frantumando la comunità stessa con gruppi contrapposti
(“ciascuno di voi dice: «Io sono di Paolo», «Io di Apollo», «Io di Cefa
(Pietro)», «E io di Cristo» 1,12). “E invece siete tutti una sola cosa in
Cristo” (3,22).
Questa comunità è ancora molto
lontana dalla sapienza di Dio. E per questo Paolo sente di dover trattare
questi cristiani come fratelli incapaci di cogliere la vera sapienza. "Non
ho potuto parlare a voi come a esseri spirituali ma carnali" (3,1). Ma
cosa sono i ministri del Vangelo? Sono servi (3,5) che hanno il compito di
intervenire, completando, aiutando a maturare, impegnando le energie e le
sapienze di ciascuno perché si orientino verso il Signore Gesù, costruiscano e
facciano crescere. Ognuno di noi ha un suo compito per guidare alla fede e non
alla sapienza umana. Ognuno di noi dà una mano, ma non è nulla: “Solo Dio fa
crescere” (3,7). E’ la grazia del Signore la vera dispensatrice di sapienza e
di vita. Coloro che sostengono il lavoro di evangelizzazione sono uniti: essi
operano per lo stesso progetto, per la stessa sapienza. Saremo riconosciuti dal
Signore, certo, ma “secondo il lavoro fatto”, secondo la propria fatica (3,8).
L’immagine del servo diventa l’immagine del collaboratore per due tipi di
lavori comuni che si conoscono: l'agricoltura e l'edilizia. "Siamo
collaboratori di Dio e voi siete il campo di Dio, l'edificio di Dio"
(3,8). Il Signore fa crescere, utilizzando ovviamente il lavoro di chi pianta,
di chi irriga, di chi organizza la costruzione. E Paolo dice che il Signore,
“per sua grazia” (3,10), gli ha permesso di porre il fondamento; un altro poi
vi costruisce sopra”. Ma resta la responsabilità di dover costruire con
sapienza e lucidità: “ciascuno stia attento a come costruisce”. Tuttavia
bisogna sempre ricordarlo: unico è il fondamento. “Infatti nessuno può porre un
fondamento diverso da quello che già vi si trova, che è Gesù Cristo” (3,11).
La riflessione successiva sui
materiali di costruzione entra nella preoccupazione di lavorare al meglio e
utilizzare ciò che è pregiato e resistente poiché, alla fine, tutto sarà
saggiato con il fuoco. Non si tratta del fuoco dell’inferno o del purgatorio,
ma il fuoco del giudizio, secondo la riflessione e credenza giudaica e
cristiana, a cui spetta la verifica di ciò che ha avuto valore e di ciò che è
scadente.
VANGELO
Lettura del Vangelo secondo Matteo 13, 24-43
In quel tempo. Il Signore Gesù espose ai suoi discepoli un’altra parabola, dicendo: «Il regno dei cieli è simile a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo. Ma, mentre tutti dormivano, venne il suo nemico, seminò della zizzania in mezzo al grano e se ne andò. Quando poi lo stelo crebbe e fece frutto, spuntò anche la zizzania. Allora i servi andarono dal padrone di casa e gli dissero: “Signore, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene la zizzania?”. Ed egli rispose loro: “Un nemico ha fatto questo!”. E i servi gli dissero: “Vuoi che andiamo a raccoglierla?”. “No, rispose, perché non succeda che, raccogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura e al momento della mietitura dirò ai mietitori: Raccogliete prima la zizzania e legatela in fasci per bruciarla; il grano invece riponételo nel mio granaio”». Espose loro un’altra parabola, dicendo: «Il regno dei cieli è simile a un granello di senape, che un uomo prese e seminò nel suo campo. Esso è il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più grande delle altre piante dell’orto e diventa un albero, tanto che gli uccelli del cielo vengono a fare il nido fra i suoi rami». Disse loro un’altra parabola: «Il regno dei cieli è simile al lievito, che una donna prese e mescolò in tre misure di farina, finché non fu tutta lievitata». Tutte queste cose Gesù disse alle folle con parabole e non parlava ad esse se non con parabole, perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta: / «Aprirò la mia bocca con parabole, / proclamerò cose nascoste fin dalla fondazione del mondo». Poi congedò la folla ed entrò in casa; i suoi discepoli gli si avvicinarono per dirgli: «Spiegaci la parabola della zizzania nel campo». Ed egli rispose: «Colui che semina il buon seme è il Figlio dell’uomo. Il campo è il mondo e il seme buono sono i figli del Regno. La zizzania sono i figli del Maligno e il nemico che l’ha seminata è il diavolo. La mietitura è la fine del mondo e i mietitori sono gli angeli. Come dunque si raccoglie la zizzania e la si brucia nel fuoco, così avverrà alla fine del mondo. Il Figlio dell’uomo manderà i suoi angeli, i quali raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e tutti quelli che commettono iniquità e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti. Allora i giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre loro. Chi ha orecchi, ascolti!».
Quanta fretta abbiamo invece noi
di eliminare la zizzania, incuranti di sradicare anche il buon grano!
Siamo così lontani dalla pazienza
e dalla lungimiranza del Signore!
Il richiamo di Gesù non è al
lassismo; caso mai, al grano che non si lasci sopraffare dalla zizzania, ma
cresca rigoglioso fino alla mietitura.
Mi sembra che adattare questa
parabola ai nostri giorni, in cui ci dimostriamo sempre più intolleranti e
‘giustizieri’, ci riproponga il senso dell’attesa non inoperosa -il grano deve
crescere- e della consapevolezza che il giudizio spetti a Dio. Noi siamo subito
pronti a condannare e a sradicare, mentre dovremmo prima di tutto sviluppare una crescita e contrastare
la zizzania con il diffondersi dei frutti.
Alla domanda legittima sulla sua
origine -“da dove viene la zizzania?”-
Gesù sorvola e risponde genericamente.
Naturalmente la parabola non ha
niente a che fare con la vita agricola (tutti sanno che per un buon raccolto
bisogna estirpare le erbacce), perché
punta al paradosso; fa riflettere
appunto per questo.
Più intrigante mi sembra la
similitudine del lievito: il Regno, alla cui costruzione siamo chiamati a
collaborare e che ci immette nei criteri
di Dio sulla vita e sulla storia, è come il lievito che deve far fermentare la
pasta.
Ma occorre essere lievito, essere
consapevoli di stare nella vita non in modo sedentario e statico, ma proiettati
al cambiamento, alla crescita.
La pasta fermentata non è più
quella di prima, e noi, prima di essere lievito per gli altri dobbiamo essere
pasta, cioè lasciarci “fermentare” dai criteri del Signore, cambiare mentalità,
essere disposti e pronti a scomparire in una nuova realtà, certamente più
appetibile, perché porta l’impronta di Dio, che è sempre quella di un amore
sconfinato e inesauribile.
Ed è una donna che impasta la
farina con il lievito: dentro questa figura abituale c’è tutta la sollecitudine
e la tacita consapevole presenza di una tenerezza che provvede al nutrimento e
quindi alla crescita dei figli.