LETTURA
Lettura del libro del Siracide 44, 23 - 45, 1a. 2-5
In quei giorni. La benedizione di tutti gli uomini e la sua alleanza / Dio fece posare sul capo di Giacobbe; / lo confermò nelle sue benedizioni, / gli diede il paese in eredità: / lo divise in varie parti, / assegnandole alle dodici tribù. / Da lui fece sorgere un uomo mite, / che incontrò favore agli occhi di tutti, / amato da Dio e dagli uomini. / Gli diede gloria pari a quella dei santi / e lo rese grande fra i terrori dei nemici. / Per le sue parole fece cessare i prodigi / e lo glorificò davanti ai re; / gli diede autorità sul suo popolo / e gli mostrò parte della sua gloria. / Lo santificò nella fedeltà e nella mitezza, / lo scelse fra tutti gli uomini. / Gli fece udire la sua voce, / lo fece entrare nella nube oscura / e gli diede faccia a faccia i comandamenti, / legge di vita e d’intelligenza, / perché insegnasse a Giacobbe l’alleanza, / i suoi decreti a Israele.
Ben Sirà o Siracide (figlio di
Sira) è uno scriba e maestro di sapienza, vissuto probabilmente a
Gerusalemme tra il III e il II secolo
a.C. Il testo porta anche la firma del suo autore, uno dei pochi nella
Scrittura (50,27). E’ un’opera scritta in ebraico intorno al 180 a.C. e
tradotta in greco dal nipote attorno al 130 a.C. ( come dice nel Prologo,
all’inizio del libro).
E’ uno di quegli scritti accolto
nell’elenco dei testi ispirati dalla Chiesa Cattolica e ortodossa ma non considerato nell’elenco
ebraico dei libri ispirati e quindi non incluso dal mondo protestante.
Tutto il cap. 44 sviluppa la lode
degli antichi padri d’Israele che manifestano, nella loro grandezza, la sapienza
e lo splendore di Dio. In loro il progetto di Dio si è irrobustito poiché hanno offerto l’esempio e la fedeltà,
pur nelle difficoltà e nella fatica quotidiana. “Facciamo ora l’elogio di
uomini illustri, dei padri nostri nelle loro generazioni. Il Signore li ha resi
molto gloriosi e la sua grandezza è da sempre” (44,1-2). La lunga rassegna
inizia con i Patriarchi, da Enoc fino a Giacobbe (44,16-23). Poi il Siracide
parla di Mosè, “amato da Dio e dagli uomini” (45,1) e continua, ricordando che
l’intervento di Dio su di lui è stato particolarmente carico di attenzioni.
Così Mosè diventa depositario della legge e quindi custode della sapienza di
Dio per il suo popolo e per le generazioni future. Lo santifica “nella fedeltà
e nella mansuetudine” e questo suggerisce quali miracoli Dio è capace di fare.
Sa mantenere il cuore nella continuità e
nella non violenza poiché, qualunque cosa si voglia dire della Prima
Alleanza, il vertice della Santità è la misericordia e quindi la mansuetudine
come virtù attiva.
Mosè è trattato come un amico, un
messo, un ambasciatore, un interprete presso il popolo. Introdotto nella nube
misteriosa, riceve i comandamenti che sono progettati per vivere, per capire e
per maturare l’Alleanza.
Ci si rende conto, pur in pochi
versetti, come l’impegno morale si gioca continuamente con diffidenze, paure,
stanchezze, oscurità. Il Signore sa che sono in gioco due libertà: la sua che è
fedele ed ha garantito con giuramento che non sarà ritirata, e insieme la
libertà dell’uomo che è soggetta a ripensamenti e a fatica, a delusioni ed a
dimenticanze. Mosè è descritto come il maestro dotato di virtù e di
responsabilità tali da saper condurre questo popolo alla piena obbedienza e
fedeltà.
EPISTOLA
Lettera di san Paolo apostolo agli Efesini 5, 33 - 6, 4
Fratelli, ciascuno da parte sua ami la propria moglie come se stesso, e la moglie sia rispettosa verso il marito. Figli, obbedite ai vostri genitori nel Signore, perché questo è giusto. «Onora tuo padre e tua madre!». Questo è il primo comandamento che è accompagnato da una promessa: «perché tu sia felice e goda di una lunga vita sulla terra». E voi, padri, non esasperate i vostri figli, ma fateli crescere nella disciplina e negli insegnamenti del Signore.
Questa lettera esprime una grande
attenzione e tenerezza verso gli abitanti credenti di Efeso. Può essere stata
scritta a Roma, nel periodo della prigionia (61-63 d.C), oppure qualche anno
prima a Cesarea (58-60 d. C.). E’ una grande lettera teologica in cui è
centrale l’amore grande di Dio, “ricco di misericordia” ed è centrale la
Chiesa, luogo carico di novità e di vita. Poiché la Chiesa ha una sua
visibilità che la porta a diventare segno, significato ed esempio, i rapporti
tra le famiglie, tessuto fondamentale dell’esperienza e della quotidianità,
debbono svolgersi in correttezza e sapienza. Quello che leggiamo oggi è solo
una piccola parte della conclusione della lettera in cui vi
sono cenni ad una morale familiare con destinatari precisi:
5,22-33 il rapporto della coppia,
6,1-4: il rapporto tra padri e
figli,
6,5-9: il rapporto tra schiavi e padroni.
Dopo il ricordo di un
comportamento rispettoso tra marito e moglie che è di reciprocità e di chiara
attenzione, ci si sofferma al rapporto tra figli e padri.
Come in ogni comunità, antica o
contemporanea, la riflessione sul comportamento verte molto nel rapporto tra
padri e figli. Gli esempi sono lampanti, le differenze tra generazioni
sviluppano diverse logiche di comportamento; spesso prevalgono l’emotività e la
intemperanza contro il comando e la rigidità.
“ Fate attenzione al vostro modo
di vivere” (5,15): è la sintesi di una esemplificazione successiva che richiama
la saggezza:“il buon uso del tempo” (16), il non essere sconsiderati, il non
ubriacarsi per non perdere il controllo di sé, desiderosi di ricevere e di
vivere nello Spirito, attenti ad un preghiera interiore e ad un continuo
rendimento di grazie” (5,15-20). Viene
suggerito il cammino nella sapienza che permette di superare contrasti,
discordie, incomprensioni familiari che rivelano, spesso, la volontà di
prevaricazioni che l'uno vuole avere sull'altro. Perciò, viene formulata la
regola d’oro dei rapporti educativi, a iniziare dai rapporti di coppia:
"Nel timore di Cristo, siate sottomessi gli uni agli altri” (5,21). Quando
ci si sente perplessi per una teologia di Paolo che richiama la lettura ebraica
del rapporto uomo-donna, non bisogna mai dimenticare questo versetto che
ridimensiona e corregge immediatamente l’idea della sudditanza o della
supremazia.
Nel rapporto con i figli ci si
ritrova in quei conflitti perenni che hanno bisogno di equilibrio e di
pazienza. E qui Paolo tenta di proporre il comandamento fondamentale: “Onora tuo padre e tua madre! Questo è il
primo comandamento che è accompagnato da una promessa: perché tu sia felice e goda di una
lunga vita sulla terra”. Corrispettivo che si ritrova nel libro dei Proverbi: “Figlio mio, osserva
il comando di tuo padre e non disprezzare l’insegnamento di tua madre (Prov
6,20).
Il rapporto educativo, oggi,
sembra molto complesso e, in questi tempi, molto più difficile poiché non c’è
facilmente un pensiero etico comune, c’è molta capricciosità anche negli
adulti, derivata da una mancanza educativa della libertà che si suppone senza
regole, da molteplicità di modelli di comportamento diversissimi senza una
corretta e tempestiva analisi critica, almeno in presenza dei giovani, dal
moltiplicarsi di spettacoli amorali o immorali nella vita e nei mezzi di
comunicazione sociale, dalla difficoltà di parlare in modo convincente di tali problemi
in famiglia, dal disagio dei genitori che non sanno essi stessi motivare i
perché morali. E si può continuare. Ma ci sono anche molte più occasioni di
confronto, la possibilità di una migliore apertura mentale, più scuola e più
cultura, più generosità e disponibilità al confronto, un più profondo desiderio
di pace e di non violenza. Tutto questo suppone che educare è fondamentale
poiché dipende dal modo di comportarsi più che dal modo di argomentare, dipende
dalla correttezza normale di un contegno non occasionale, dalla misericordia
che si ha con altri ma, insieme, dalla responsabilità e lucidità su di sé.
La Comunità cristiana dovrebbe
senz’altro attrezzarsi per aiutare i genitori, prima che aiutare i figli. Ma
questa è la scommessa di ogni generazione che affronta i problemi dell’etica e
tenta di dare soluzioni coerenti al proprio credo.
La conclusione ai padri è saggia:
“E voi, padri, non esasperate i vostri figli, ma fateli crescere nella
disciplina e negli insegnamenti del Signore: “ e corrisponde ad un suggerimento
simile nella lettera ai Colossesi. “Voi, figli, obbedite ai genitori in tutto;
ciò è gradito al Signore. Voi, padri,
non esasperate i vostri figli, perché non si scoraggino (Col3,20-21).
VANGELO
Lettura del Vangelo secondo Matteo 2, 19-23
In quel tempo. Morto Erode, ecco, un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe in Egitto e gli disse: «Àlzati, prendi con te il bambino e sua madre e va’ nella terra d’Israele; sono morti infatti quelli che cercavano di uccidere il bambino». Egli si alzò, prese il bambino e sua madre ed entrò nella terra d’Israele. Ma, quando venne a sapere che nella Giudea regnava Archelao al posto di suo padre Erode, ebbe paura di andarvi. Avvertito poi in sogno, si ritirò nella regione della Galilea e andò ad abitare in una città chiamata Nàzaret, perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo dei profeti: «Sarà chiamato Nazareno».
Non sappiamo nulla di particolare
della famiglia di Gesù, tranne qualche spiraglio relativo a Maria e Giuseppe
nell’ambito della sua infanzia; Gesù, di cui Luca nel suo vangelo dice che cresceva “in sapienza, età e grazia”.
E’ una famiglia come tutte le
altre famiglie ebree che abitavano a Nazaret in quel tempo, dove Gesù
trascorre ben trent’anni della sua vita.
Questo fatto di vivere nel
silenzio di una periferia della storia (come direbbe papa Francesco) e nella
ordinarietà esistenziale di una famiglia di paese basata sul lavoro manuale e
agricolo e sulla scansione abituale dei
gesti di tutti i giorni, fa pensare.
Non c’è nessun clamore intorno;
Gesù è uno di noi come Maria sua madre e Giuseppe suo padre.
Perché allora la celebriamo?
Il vangelo di oggi dà delle
indicazioni: anzitutto è incentrato sulla figura di Giuseppe, che è attento ai
sogni, cioè alle intuizioni che gli vengono dall’alto e dal profondo della sua coscienza, e
decide secondo responsabilità e
attenzione, giudicando dai fatti che accadono.
Perciò non solo rientra nella terra d’Israele, ma per sicurezza si
ritira a Nazaret, un paese sconosciuto nella Scrittura, se non per la profezia
che Matteo si premura di precisare: “Sarà chiamato Nazareno”
Questa scelta ci richiama la
condizione iniziale di un profugo, perché Giuseppe vuole sfuggire ad un
pericolo nella premura di proteggere il
Bambino e sua Madre.
Ma la vita oscura a Nazaret ci
dice non solo l’umiltà di un’esistenza nascosta e apparentemente banale, ma
soprattutto le preferenze di Dio: la
condivisione totale con l’umanità, non a partire dai potenti, ma da chi non ha voce in capitolo nella storia e nella
società.
E’ singolare che Gesù trascorra
il maggior tempo della sua vita in questa anonimità, Lui che è il “Salvatore
del mondo”; questo vuol dire che il quotidiano può (e deve) essere il luogo
della crescita, della maturazione di un progetto importante come la
testimonianza di un amore grande,
sconfinato, premuroso e attento come l’amore di un padre, figura dell’amore di
Dio.
Non il clamore di una famiglia o
di un personaggio prodigio, ma la profondità di una relazione che si misura
nello svolgersi cadenzato delle giornate e nel silenzio e nella monotonia delle
cose e dei gesti abituali.
In questo testo è l’ultima volta
che nei vangeli viene citato direttamente Giuseppe (Luca ne parlerà ancora di sfuggita
nell’episodio di Gesù tra i dottori nel Tempio); è un personaggio che rientra
nell’ombra, ma la cui importanza –l’importanza dei padri!- è fondamentale nella
vicenda e nella formazione di Gesù.