2^ Domenica dopo il Martirio di San Giovanni il Precursore

LETTURA 

Lettura del profeta Isaia 63, 7-17
In quei giorni. Isaia parlò, dicendo: / «Voglio ricordare i benefici del Signore, / le glorie del Signore, / quanto egli ha fatto per noi. / Egli è grande in bontà per la casa d’Israele. / Egli ci trattò secondo la sua misericordia, / secondo la grandezza della sua grazia. / Disse: “Certo, essi sono il mio popolo, / figli che non deluderanno”, / e fu per loro un salvatore / in tutte le loro tribolazioni. / Non un inviato né un angelo, / ma egli stesso li ha salvati; / con amore e compassione li ha riscattati, / li ha sollevati e portati su di sé, / tutti i giorni del passato. / Ma essi si ribellarono / e contristarono il suo santo spirito. / Egli perciò divenne loro nemico / e mosse loro guerra. / Allora si ricordarono dei giorni antichi, / di Mosè suo servo. / Dov’è colui che lo fece salire dal mare / con il pastore del suo gregge? / Dov’è colui che gli pose nell’intimo / il suo santo spirito, / colui che fece camminare alla destra di Mosè / il suo braccio glorioso, / che divise le acque davanti a loro / acquistandosi un nome eterno, / colui che li fece avanzare tra i flutti / come un cavallo nella steppa? / Non inciamparono, / come armento che scende per la valle: / lo spirito del Signore li guidava al riposo. / Così tu conducesti il tuo popolo, / per acquistarti un nome glorioso. / Guarda dal cielo e osserva / dalla tua dimora santa e gloriosa. / Dove sono il tuo zelo e la tua potenza, / il fremito delle tue viscere / e la tua misericordia? / Non forzarti all’insensibilità, / perché tu sei nostro padre, / poiché Abramo non ci riconosce / e Israele non si ricorda di noi. / Tu, Signore, sei nostro padre, / da sempre ti chiami nostro redentore. / Perché, Signore, ci lasci vagare lontano dalle tue vie / e lasci indurire il nostro cuore, così che non ti tema? / Ritorna per amore dei tuoi servi, / per amore delle tribù, tua eredità».


Ciò che abbiamo letto è parte di una bellissima preghiera di Israele, una delle più commoventi della Scrittura, (63,7-64,11) che nasce dalla esperienza dell’esilio a Babilonia. Siamo alla fine del secolo VI, e davanti agli occhi resistono ancora vivissimi i ricordi della distruzione di Gerusalemme (586 a.C.), le urla delle donne terrorizzate che fuggono con i loro figli, le stragi per le strade e le fiamme che avvolgono i palazzi ed il tempio
L'inizio della preghiera è come una confidenza, un pensiero di speranza di Dio stesso, che si fida di questo popolo che ha aiutato in ogni modo. “Senz’altro - pensa il Signore - questo popolo con la sua intelligenza e la sua sensibilità saprà riconoscere la bontà e l’opera svolta per loro. Certo- disse il Signore- essi sono il mio popolo e i figli che non deluderanno" (v 8).
Il profeta garantisce che questi sono i pensieri di Dio e lo fa a nome di Dio, mentre ripensa ai significati della storia del popolo. Dio stesso si è fatto carico della salvezza, non ha mandato un angelo o un messaggero, ma è stato Lui il Salvatore: “Non un inviato né un angelo, ma egli stesso li ha salvati; con amore e compassione li ha riscattati, li ha sollevati e portati su di sé, tutti i giorni del passato” (63,9). Ma proprio questo Dio amorevole si sente tradito. Così la riflessione teologica, propria del Primo Testamento, ritraduce la sventura successiva del popolo d'Israele come conclusione della scellerata decisione di lacerare il patto di Alleanza da parte dello stesso popolo. Ma, in tal modo, il popolo di Dio si è ritrovato solo, in un mondo di violenza e di sopraffazione.
Così l’itinerario del pentimento deve ricominciare dalle origini, riandare al deserto e a Mosè che si fece umile mediatore e quindi ubbidiente testimone delle promesse di Dio (v 16).. C’è una sintesi interessantissima che raccoglie in 5 frasi l’opera discreta e profonda di Dio ( “ Dov’è colui che? Cinque come i libri della Legge: riassunto della sapienza e della storia; vv 11-13).
La preghiera si apre in una accorata invocazione a Dio che, per la prima volta, viene chiamato Padre. Gli ebrei sono restii a chiamare Dio Padre poiché è questo il titolo che i pagani utilizzano per i loro dei, che usano sposare le figlie degli uomini ed avere figli e figlie. Ma Gesù questo titolo lo utilizzerà almeno 184 volte nei vangeli. Dio è l’Unico, il Padre suo e di tutti noi.
Nella preghiera si fa riferimento ai Patriarchi: Abramo, Isacco e Giacobbe che sono padri del popolo, ma, in questa circostanza, non possono fare niente e li hanno dimenticati (v 16). L’esperienza e i ricordi, però, assicurano che “Tu non sai dimenticare e che la tua parola resta intatta”. La supplica è coraggiosa ma tenerissima: “Tu stesso devi riscoprire il tuo zelo e la tua potenza; il fremito di tenerezza e di misericordia" (v 15). Solo tu puoi cambiare il nostro cuore, offrire il tuo Spirito, radunarci, farci tornare. Questa preghiera di grande respiro sul mondo deve diventare la preghiera aperta del popolo cristiano.

EPISTOLA 
Lettera agli Ebrei 3, 1-6
Fratelli santi, voi che siete partecipi di una vocazione celeste, prestate attenzione a Gesù, l’apostolo e sommo sacerdote della fede che noi professiamo, il quale è degno di fede per colui che l’ha costituito tale, come lo fu anche Mosè in tutta la sua casa. Ma, in confronto a Mosè, egli è stato giudicato degno di una gloria tanto maggiore quanto l’onore del costruttore della casa supera quello della casa stessa. Ogni casa infatti viene costruita da qualcuno; ma colui che ha costruito tutto è Dio. In verità Mosè fu degno di fede in tutta la sua casa come servitore, per dare testimonianza di ciò che doveva essere annunciato più tardi. Cristo, invece, lo fu come figlio, posto sopra la sua casa. E la sua casa siamo noi, se conserviamo la libertà e la speranza di cui ci vantiamo.

La lettera è indirizzata soprattutto ad una comunità di Giudei cristiani. E’ piuttosto difficile, nella prima generazione della Chiesa, convincere i Giudei che diventano Cristiani di lasciare completamente molta parte della loro vecchia religione, da sempre rispettata, per accettare quella nuova. Alcuni erano propensi a ritornare al giudaismo dopo aver accettato la fede cristiana. Gli argomenti principali sono la superiorità di Cristo come sacerdote su Aronne, e la superiorità del sacrificio di sé stesso sulla legge. Tutto questo dimostra, infatti, non solo la superiorità di Cristo, ma impegna anche che il sacerdozio di Aronne e i sacrifici della legge non debbono essere più osservati. Dimostra anche che tutti i riti della legge che dipendono dal sacerdozio di Aronne e dai sacrifici a questo collegati sono passati con essi.
Gesù è chiamato “apostolo e sommo sacerdote”. Normalmente l’essere apostoli è dei discepoli inviati da Gesù, ma qui  Gesù è il grande apostolo, cioè «inviato» da Dio agli uomini (cf.Gv 3,17+.34;5,36;9,7;Rm 1,1+;8,3;Gal 4,4) e sommo sacerdote, che rappresenta gli uomini presso Dio (cf.2,17;4,14+;5,5.10;6,20;7,26;8,1;9,11;10,21).
Il testo di oggi è all’inizio della sezione che  presenta Gesù: "Sommo sacerdote, degno di fede e misericordioso" (3,1-5,10). Il termine di paragone è Mosè che ha condotto il popolo verso la terra promessa. Sia Gesù che Mosè sono stati fedeli al Padre e tutti e due hanno dato prova di tale adesione nella “casa di Dio”. Infatti Mosé e Gesù hanno operato nella "casa" (che è il popolo d'Israele). Ma Mosé ha avuto da Dio un incarico come servo mentre è membro del popolo.
Gesù, invece, Figlio e Messia (Cristo), non partecipa alla costruzione, ma Lui stesso è costruttore di una propria casa, "non costruita da mano d'uomo" (9,11).
Esistiamo allora come popolo nuovo, assolutamente unico poiché poggia sulla fede in Gesù. E siamo un popolo nuovo non per etichetta o per riferimento culturale, tradizione od abitudini. “E la sua casa siamo noi, se conserviamo la libertà e la speranza di cui ci vantiamo” (v 6).
Nelle discussioni, confronti, sviluppi culturali, facilmente, rivendichiamo come cristiani diritti e appartenenze per tradizioni, sacramenti ricevuti, abitudini, collocazioni geografiche. Le consuetudini diventano facilmente abito formale, costumi e pretese di appartenenza.
Il testo ci riporta a “sentirci” nella casa di Gesù. E sentirsi nella casa di Gesù non avviene perché abbiamo in tasca le chiavi di casa, ma perché coltiviamo e manteniamo “libertà e speranza”. La libertà dei figli di Dio si collega con la volontà del Padre, il rispetto e la misericordia per ogni persona, l’amore e l’attenzione ai più dimenticati. “La speranza” ci riporta a cercare e a costruire un mondo sempre migliore, perché sappiamo che lo Spirito ci sostiene. Il desiderio del Padre è rendere il mondo sempre più bello, purificato e libero dal male.

VANGELO 
Lettura del Vangelo secondo Giovanni 5, 37-47

In quel tempo. Il Signore Gesù disse: «Anche il Padre, che mi ha mandato, ha dato testimonianza di me. Ma voi non avete mai ascoltato la sua voce né avete mai visto il suo volto, e la sua parola non rimane in voi; infatti non credete a colui che egli ha mandato. Voi scrutate le Scritture, pensando di avere in esse la vita eterna: sono proprio esse che danno testimonianza di me. Ma voi non volete venire a me per avere vita. Io non ricevo gloria dagli uomini. Ma vi conosco: non avete in voi l’amore di Dio. Io sono venuto nel nome del Padre mio e voi non mi accogliete; se un altro venisse nel proprio nome, lo accogliereste. E come potete credere, voi che ricevete gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene dall’unico Dio? Non crediate che sarò io ad accusarvi davanti al Padre; vi è già chi vi accusa: Mosè, nel quale riponete la vostra speranza. Se infatti credeste a Mosè, credereste anche a me; perché egli ha scritto di me. Ma se non credete ai suoi scritti, come potrete credere alle mie parole?».

La liturgia di queste domeniche di settembre si svolge nell’orizzonte della TESTIMONIANZA, a partire da quella del Precursore  Giovanni, così come viene presentata nel vangelo secondo Giovanni.
E’ la testimonianza di chi è inviato da Dio per ‘preparare la strada”, per indicare “Colui che viene”, per disporre all’accoglienza di Qualcuno, che porterà la misericordia, la salvezza di Dio, che renderà visibile l’Amore di Dio.
E’ il riconoscimento di chi è stato toccato dall’incontro con Gesù e ne è rimasto totalmente preso.
Il brano di oggi è molto severo ed eloquente: si rivolge a coloro che studiano le Scritture, non solo, ma a tutti noi che le leggiamo e che cerchiamo di comprenderle, rimproverandoli:  “Voi scrutate le Scritture”, le analizzate, le studiate, le interpretate, , ma non riuscite a coglierne la testimonianza  viva. Perché vi fermate soltanto ad esse.
“Voi non volete venire a me per avere vita”.
Il punto dolente e importante è proprio questo: nelle Scritture dobbiamo cogliere la Parola di Dio che ci rinvia all’incontro con Gesù “per avere vita”.
Non basta cercarlo, desiderare di comprendere e seguire il suo messaggio; bisogna “venire a Lui per avere vita”.
Credo che bisogna riflettere e approfondire su questo richiamo esplicito di Gesù: andare da Lui per  ‘avere vita’.
Avere vita significa vivere non da apatici ed inanimati, ma facendo appello a tutte le risorse per essere capaci a nostra volta di testimoniare.  E la testimonianza è quella su Gesù che si è speso per amore, un amore che non conosce confini, che sa donarsi sino a morire con e per gii altri.
In questi tempi di  oscuri messaggi di violenza e di carneficine, di fronte alle quali ci si sente impotenti o schivi, il richiamo di Gesù ci porta ad impegnarci con un ‘surplus’ di vita e di gesti di bene e di speranza, ravvivando la nostra umanità ed aprendo il nostro cuore e la nostra intelligenza in difesa dei disperati e dei ‘senza vita’ (perché ormai svuotati dalle devastazioni e dal dolore). 
Altrimenti che cosa vogliono dire concretamente per noi oggi le parole di Gesù?
Soltanto esortarci all’Eucaristia?
O non piuttosto: aprite i vostri cuori  e riaccendeteli del mio amore, in modo che tutti se ne accorgano?
Questo significa testimoniare.