LETTURA
Lettura della prima lettera di san Giovanni apostolo 1, 1-10
Lettura della prima lettera di san Giovanni apostolo 1, 1-10
Quello che era da principio, quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita – la vita infatti si manifestò, noi l’abbiamo veduta e di ciò diamo testimonianza e vi annunciamo la vita eterna, che era presso il Padre e che si manifestò a noi –, quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. E la nostra comunione è con il Padre e con il Figlio suo, Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia piena. Questo è il messaggio che abbiamo udito da lui e che noi vi annunciamo: Dio è luce e in lui non c’è tenebra alcuna. Se diciamo di essere in comunione con lui e camminiamo nelle tenebre, siamo bugiardi e non mettiamo in pratica la verità. Ma se camminiamo nella luce, come egli è nella luce, siamo in comunione gli uni con gli altri, e il sangue di Gesù, il Figlio suo, ci purifica da ogni peccato. Se diciamo di essere senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi. Se confessiamo i nostri peccati, egli è fedele e giusto tanto da perdonarci i peccati e purificarci da ogni iniquità. Se diciamo di non avere peccato, facciamo di lui un bugiardo e la sua parola non è in noi.
La prima lettera, la più
importante delle tre attribuite a Giovanni Evangelista, vuole opporsi a false
idee circolanti nelle Comunità cristiane conosciute, e che mettono in serio
pericolo la comunione tra i fratelli cristiani. Queste nuove convinzioni riguardano
soprattutto Gesù. Così Giovanni vuole approfondire la coscienza della comunità
cristiana stessa, perché possa camminare nella luce di Gesù, Verbo della vita.
Come data probabile e luogo di composizione si può pensare ad Antiochia o ad
Efeso tra il 100 e il 105 d.C.
L'inizio della lettera è lo
sviluppo un inno al Verbo di Dio, volutamente ricollegato al Prologo del
Vangelo di Giovanni. Il Verbo della vita è la vita stessa, porta la vita agli
uomini, riceve questa vita dal Padre e la possiede allo stesso modo con cui la
vive il Padre. Questa vita, che è mistero (si sente continuamente il richiamo
dell'inizio del Vangelo), si è fatta concretezza nell'esperienza di un "noi"
(5), che non è, perciò, testimonianza di un'unica persona, ma esperienza di
coloro che lo hanno accolto, avendo accettato di sentirlo, avendo avuto la
costanza di scrutarlo, la pazienza e la fiducia di contemplarlo, la certezza di
toccarlo. Questa esperienza si è posta “all'inizio” (1) come rivelazione e
quindi come un itinerario nel mistero di Dio. Essa così viene manifestata come
"vita eterna presso il Padre" e quindi, manifestata, diventa
comunione con coloro che lo hanno accolto: comunione con il Padre e con Gesù. È
una comunione aperta perché permette di essere conosciuta, comunicata,
addirittura scritta affinché si possa leggere, vedere, ascoltare. Il proprio
cuore si apre alla gioia piena di coloro che lo stanno manifestando e alla
gioia di chi ascolta.
Giovanni, avendo a che fare, e lo
si capirà poi nel corso del testo via via, con persone che pretendevano di aver
raggiunto una conoscenza superiore del mistero di Cristo e quindi disprezzavano
i fratelli, rimprovera che si metta in crisi la comunione, oscurando la luce.
Volendo Giovanni sintetizzare il
messaggio attraverso una esperienza difficilmente esprimibile, egli
semplicemente dice che è stata sperimentata la luce: la luce di Dio, che si è
manifestata loro senza alcuna tenebra.
L'essere in comunione tra
fratelli significa, allora, accettare di vivere nella luce e rifiutare di
camminare nelle tenebre. Nello stesso tempo si manifesta la stessa comunione
che Gesù aveva sviluppato con i suoi discepoli.
Lo sforzo di essere in comunione
purifica il cuore dall'oscurità e della menzogna, che, tuttavia, tendono a
lacerare ogni comunione con colui che è stato conosciuto, visto, contemplato,
toccato, e quindi con coloro che sono credenti nella propria comunità
cristiana.
La comunione con il Verbo di vita
appare nella "comunione degli uni con gli altri". Ma questa non è
facile, anzi può, spesso, diventare un paradigma pericoloso, ambiguo, colmo di
difficoltà e di lacerazioni che può condurre al male. La comunione con gli
altri ha bisogno del sangue di Gesù che ci purifichi da quel peccato che noi
sperimentiamo ogni giorno.
La comunione con la Chiesa ci permette di
essere in comunione con Dio. In questa comunione non devono esserci
individualismo, chiusura, solitudine.
Esiste, dice Giovanni, una specie
di circolarità che nasce dal Verbo che si è comunicato ai discepoli, i quali
sentono di dover essere in comunione con Lui. Ma questo è possibile se si
comunica ad altri la stessa impensabile pienezza che porta gioia. E questa
gioia e pienezza si comunicano accettando, nello stesso tempo di essere in
comunione e di non essere all'altezza. Così ci si ritrova a dover aver sempre
più bisogno di Gesù, mentre lo si comunica.
Come sua comunità, dobbiamo
riconoscere l'importanza dell’incontrare la pienezza, correre insieme il
rischio della comunione con gli altri, e accettare di riconoscere la nostra
fragilità e la nostra impotenza. Ma sappiamo che "Egli, che è fedele"
ci perdonerà, ci purificherà e ci sosterrà.
Se non riconosciamo questa
vocazione verso gli altri nell'impegno della comunione (e Giovanni è
continuamente cosciente delle lacerazioni esistenti nella sua comunità) e se,
nello stesso tempo, non riconosciamo la nostra povertà, allora escludiamo Dio
dalla nostra vita perché, in questo caso, Egli non è più luce ma menzogna e
perciò "la sua Parola
non è in noi".
EPISTOLA
Lettera di san Paolo apostolo ai Romani 10, 8c-15
Lettera di san Paolo apostolo ai Romani 10, 8c-15
Fratelli, questa è la parola della fede che noi predichiamo. Perché se con la tua bocca proclamerai: «Gesù è il Signore!», e con il tuo cuore crederai che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo. Con il cuore infatti si crede per ottenere la giustizia, e con la bocca si fa la professione di fede per avere la salvezza. Dice infatti la Scrittura: «Chiunque crede in lui non sarà deluso». Poiché non c’è distinzione fra Giudeo e Greco, dato che lui stesso è il Signore di tutti, ricco verso tutti quelli che lo invocano. Infatti: «Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato». Ora, come invocheranno colui nel quale non hanno creduto? Come crederanno in colui del quale non hanno sentito parlare? Come ne sentiranno parlare senza qualcuno che lo annunci? E come lo annunceranno, se non sono stati inviati? Come sta scritto: «Quanto sono belli i piedi di coloro che recano un lieto annuncio di bene!».
In questo capitolo Paolo parla
del fallimento di Israele che non ha saputo accogliere la presenza di Gesù.
Eppure Mosé aveva dato alcuni suggerimenti per individuare la presenza di Gesù e
la sua Parola. Ma
Gesù non è stato accolto. Accogliere Gesù non è facile anzi, non è possibile ad
una persona se non è aiutato dallo Spirito: "Nessuno può dire Gesù è il
Signore se non nello Spirito Santo" (1Cor 12,3). Accogliere Gesù richiede
un profondo e coraggioso atto di fede per cui con la bocca e con il cuore crediamo
e accettiamo che Gesù è il Signore vissuto tra noi, crocifisso e risorto. La
bocca e il cuore sono due vie importanti per esprimere la fede.
Il cuore è il luogo delle scelte,
delle decisioni, delle appartenenze. In questo caso il cuore proclama la
signoria di Gesù sulla nostra vita e quindi la sua unicità e il suo valore per
poterci unire in pienezza.
La bocca esprime ciò che il cuore
accoglie. "Con la bocca si esprime ciò che si ha nel cuore", dice
Gesù (Luca 6,45). Dire: "Gesù è il Signore" significa manifestare con
consapevolezza, all'interno di una comunità dove si vive e ci si confronta, la
scelta fondamentale di Gesù. Con questa scelta, comunque, compiamo una
professione di fede che porta il dono di Dio.
È questo l'elemento che unifica,
al di là delle differenze somatiche o culturali: "Non c'è distinzione fra
giudeo e greco". Il mondo della fede abbatte le barriere di differenze
razziali, di culture diverse, di condizioni sociali ed economiche, di
temperamenti, di caratteri.
Gli ultimi due versetti
percorrono l'itinerario per giungere alla fede piena.
Andando a ritroso, per invocarlo
bisogna aver creduto. Per credere bisogna aver sentito parlare. Per sentirne
parlare ci vuole qualcuno che annunci; per annunciare è necessaria una
vocazione da parte di Dio che conduce alla fede. Ma allora diventano splendidi
i passi di chi ti raggiunge, di chi ti corre incontro, di chi ti cerca. Sono i
passi che richiamano quelli di Gesù missionario itinerante nella terra
d’Israele. Sono i passi premurosi di chi si sa conoscere la sofferenza e
soccorre.
VANGELO
Lettura del Vangelo secondo Giovanni 21, 19c-24
Lettura del Vangelo secondo Giovanni 21, 19c-24
In quel tempo. Il Signore Gesù disse a Pietro: «Seguimi». Pietro si voltò e vide che li seguiva quel discepolo che Gesù amava, colui che nella cena si era chinato sul suo petto e gli aveva domandato: «Signore, chi è che ti tradisce?». Pietro dunque, come lo vide, disse a Gesù: «Signore, che cosa sarà di lui?». Gesù gli rispose: «Se voglio che egli rimanga finché io venga, a te che importa? Tu seguimi». Si diffuse perciò tra i fratelli la voce che quel discepolo non sarebbe morto. Gesù però non gli aveva detto che non sarebbe morto, ma: «Se voglio che egli rimanga finché io venga, a te che importa?». Questi è il discepolo che testimonia queste cose e le ha scritte, e noi sappiamo che la sua testimonianza è vera.
“Signore, che cosa sarà di lui?”
Pietro, curioso e forse un po’
preoccupato, in quest’ultimo capitolo del IV vangelo e in un testo piuttosto
enigmatico, dopo la sua triplice affermazione di corrispondere all’amore del
Signore, vedendo che Giovanni li seguiva, fa
questa domanda a Gesù.
Gesù sembra rispondere in modo
sibillino, eludendo la richiesta e spostandola sull’invito perentorio a seguirLo.
Ma questa domanda però, rimane,
anche se generalizzata; e per molti di noi, andando avanti nella vita, con
l’esperienza che si accumula sulle spalle e nel cuore, sembra diventare più
urgente e pressante: “Che cosa sarà di noi, Signore?”
Il nostro tempo è così tragico, a
volte sembra che tutto vada alla deriva, si affievoliscono i punti di
riferimento; sembra che l’odio prevalga sull’amore e che ogni buon proposito
assuma il grigiore di certe nostre giornate nebbiose e inquinate; le notizie
che ci bombardano parlano prevalentemente di morte, di cattiveria, di
violenza. Che cosa sarà di noi tutti,
Signore?
Eppure la gioia di Natale è
dell’altroieri, eppure Giovanni è l’evangelista dell’amore di Dio. Ecco, mi pare che questa domanda, così
concreta e attuale nella storia degli uomini e delle donne di tutti i tempi,
richiamino ad uno scossone: la vita non è qualcosa che si subisce o a cui ci si
rassegna nell’andazzo dei ritmi abituali, ma è abitata dalla presenza del
Signore, che va seguito, per ribadirne il senso e rivalorizzare il nostro
esserci al mondo.
Camminare con il Signore e
accorgersi di chi segue, perché ciascuno ci sta a cuore, così come sta a cuore
a Lui, nella esclusività di un rapporto che non può essere standardizzato o
seriale, ma vivo come la consapevolezza di un incontro che ha lasciato e lascia
sempre una traccia.
E la domanda si colora di
un’altra domanda evangelica: “Signore, da chi andremo? Tu solo hai parole di
vita eterna.”
Parole della vita, della vita in
pienezza, come spesso ci dice Giovanni nel suo vangelo; parole che vanno
ricordate, cercate, assimilate in profondità.
Siamo riconoscenti all’apostolo
ed evangelista Giovanni di averci trasmesso il suo vangelo di luce e di ombre,
perché la vita è davvero così: un chiaroscuro in cui i lampi di luce riescono
ad illuminare e annullare le ombre della nostra incredulità, delle nostre paure
e dei nostri dubbi.